Oggi, dopo vent’anni d’allora; mi è capitato più
volte di avere la conferma, dallo sviluppo delle forme contemporanee, che
ci stavamo muovendo nella giusta direzione. Ci è mancata la forza e la
maturità per capire che bisognava perseverare. Alcune delle scelte
compiute già andavano in questo senso. Senza perdere la forza e l’originalità
dell’input inziale si poteva trasformare l’esperimento in una realtà
professionale che avrebbe garantito un futuro migliore e avrebbe prodotto
risultati apprezzabili e professionalmente validi che apparivano, allora,
in una forma embrionale. La realtà circostante era scoraggiante e
muoversi aldi fuori degli schemi rendeva tutto più difficile. La molla
originaria che ci aveva spinto a metterci insieme era l’esigenza di
sconfiggere le barriere esistenti fra le varie forme d’Arte. Per questo
il Teatro fu scelto come luogo possibile di coalizione. Artisti
provenienti da esperienze diverse si univano intorno ad un progetto
comune; in cui, almeno idealmente, i mezzi espressivi erano equivalenti e
concorrevano alla realizzazione del prodotto finale. Personalmente avevo
avuto modo di scoprire sui banchi di scuola dell’Istituto Statale d’arte
di San Leucio che: la rappresentazione del progetto Architettonico
contemporaneo, riteneva insufficiente l’ambito bidimensionale del foglio
per presentare le proprie visioni. Veniva utilizzata la performance come
metodo d’indagine e illustrativo unico possibile a rappresentare il
paradosso delle contraddizioni. Un riconoscimento va fatto alla rassegna
organizzata dall’allora Teatro studio di Caserta, che offrì la
possibilità di vedere quali erano i canoni della rappresentazione
post-moderna in occasione di “Passaggio a Sud-Ovest” Caldo-freddo.
Sempre sui banchi di scuola, grazie agli insegnamenti degli insegnanti
Napoletani: Cipriani, Mele, Pasquali ed altri, ebbi modo di
sperimentare la performance come metodo d’indagine sul territorio, per
capire i limiti di una progettazione asettica. Per capire la realtà e lo
spazio, le esigenze di coloro che avrebbero dovuto vivere negli spazi
progettati. D’altro canto Paolo V. per suo conto seguiva un
percorso parallelo nelle Arti visive, giungendo alle stesse scelte
formali. Franco B. anarchico e situazionista percorreva nella sua
vita con l’incedere di chi non vuole nulla togliere e nulla avere. Solo
vivere . Giovanni V. fotografo e musicista attraverso un percorso
di vita sofferente e disperato contribuiva con la sua estrema sensibilità
e ben si amalgamava alle visioni poetiche che costruivamo. Amedeo F.
aveva un orecchio ed un occhio sempre attento alle nuove tendenze, senza
anticiparle ma sempre interpretandole. Agostino S. vulcanico e
carismatico trascinava tutto in un vortice ritmico in cui il bene e il
male si sovrapponevano perdendo le proprie caratteristiche peculiari e
forse rendendo più difficile ma più interessante capire dove stavamo
andando. Io, popolavo la mia vita di visioni continue e le mie visioni
erano popolate dai personaggi della vita reale; da questo interscambio tra
mondi egualmente concreti nascevano le peggiori e le migliori cose
prodotte in quel periodo. Numerose altre collaborazioni hanno dato il loro
contributo importante, sarebbe troppo lungo elencarle. Avevamo un idea
forte e vincente, unire le forme d’Arte, ora bisognava provarci e non
era detto che ci saremo riusciti. La prima occasione fu la performance ”Aversa
Trips”(79) che marcava molto il versante dell’azione concettuale e
istintiva. Segui l’azione scenica “Performance in tre atti”
presso il belvedere di S. Leucio che offri ad ognuno di noi la
possibilità di sondare un terreno individuale di ricerca. A questo punto
realizzammo la prima opera di gruppo, su di un vero palcoscenico che per
la prima, fu quello della Quarta Rassegna Internazionale di Teatro
laboratorio, organizzata da Gennaro Vitiello a Torre del Greco
(NA).
In quest’occasione avemmo modo di sperimentare il
mezzo Teatro così come era universalmente conosciuto. Scegliemmo di
rappresentare una storia ispirata da un breve racconto di Edgar Allan
Poe, La Pantomima della morte rossa. Il nostro primo approccio
con il Teatro vero non poteva che essere sfiorato dalla Letteratura, ma
non avremmo parlato per non essere servitori della parola scritta; non
avremmo aperto bocca fino a quando, negli anni successivi, non c’è ne
fu bisogno e non divenne esigenza sentita. Il nostro primo amore per il
mezzo teatrale fu verso un corpo libero nello spazio che si muoveva tra
luci e suoni. Tutto questo coincideva con la presa di coscienza fisica e
spirituale, ultimo atto del “Movimento77” eredità del “68” uno
dei suoi ultimi slogan di pensiero era stato il grido mai urlato, ma
ripetuto in tutte le assemblee e le riunioni dell’epoca: “Il personale
è politico e il politico é personale” che altro non era se non un
grido di estrema libertà e di sfida agli ideologismi, partendo da una
presa di coscienza della propria corporalità e della propria
individualità. Nel racconto di E.A.P. un gruppo di persone si rinchiudeva
all’interno di un castello mentre fuori impazzava la peste. Né più né
meno di quello che significava per noi partecipare al progetto stesso,
quando c’isolammo per mesi nel Teatro Comunale di Caserta per le prove.
Eravamo chiusi in una sala buia su di un vecchio palcoscenico all’Italiana
con il graticcio vecchio e polveroso. Non avevamo nessun mezzo tecnico al
di fuori dei nostri corpi e dei nostri strumenti. Decidemmo di seguire il
filo logico rappresentato dalle sette sale colorate descritte nel
racconto. Per ogni sala cambiavamo la gelatina colorata davanti all’unico
faro che avevamo in prestito. Devo precisare a questo punto che tutti i
riferimenti alla scarsezza di mezzi non vogliono commuovervi come elementi
di un romanzo Ottocentesco, o ancor peggio, giustificare risultati; essi,
servono unicamente a dire che l’opera finale, il prodotto esposto, altro
non é se non la migliore mediazione ottenibile tra l’idea iniziale ed i
suoi sviluppi, e i mezzi impiegati. E’ all’interno di questa
mediazione che và letto il risultato ottenuto alla luce del contesto
storico che lo determina. Torniamo alla pantomima; dividemmo lo spettacolo
in sette parti, ognuna di esse era caratterizzata da un colore e questo
colore dominava, inizialmente solo la nostra reazione emotiva; diventando
poi la chiave di lettura delle diverse sequenze. Scarsità di mezzi e
semplicità di vedute avrebbero prodotto un opera lineare e corretta.
Oggi, che le strutture dei linguaggi si sovrappongono non posso che
riconoscermi in una ricerca minima; che porta alla costruzione di una
struttura unica di base, la chiave di lettura generale, la matrice.
Cominciammo a provare tirando fuori ciò che ci suggeriva il colore
prescelto con lo strumento che a ciascuno era congeniale. Cercavamo un
armonia di vedute, discutevamo su tutto, non si sarebbe potuto fare
diversamente. Nacque così l’idea della regia collettiva che sempre ci
avrebbe accompagnato e contraddistinto, dando quell’impronta Zingaresca,
Balcanica direi oggi, alle nostre produzioni. L’idea del movimento e del
cambiamento si andava a definire nel concetto più ristretto ma più reale
di area; che comprendeva nel suo insieme un ampio gruppo di persone che
gravitavano intorno ai Potlatch e ci arricchivano. Un altra primavera d’idee
e di crisi.
Successivamente ci accorgemmo che era difficile trovare
gli ambiti adatti a rappresentare quel tipo di lavoro che pure ci era
molto congeniale. S’inserisce a questo punto Agos, che trascinò
tutto sul versante musicale, e al quale sinceramente non interessava
niente di una ricerca fatta sui mezzi Teatrali, che non fossero ad
indirizzo comico o vagamente sociale, in altre parole egli c’indirizzo
verso una forma più popolare; che era senz’altro necessaria per
garantirci la possibilità di accedere a quei circuiti minimi disponibili
sul mercato di allora. Anche se questa scelta ci allontanò quasi
definitivamente dalle nostre ricerche. La battaglia era sempre aperta, ma
l’esigenza di sopravvivere con il frutto del nostro lavoro ci rendeva
più inclini ad accettare compromessi. Iniziammo un percorso multiplo che
ci portava a misurarci con diverse forme di spettacolo. I risultati
raggiunti nelle nostre ricerche ed esperienze ci consentivano di accettare
qualsiasi tipo d’ingaggio trasformando in breve tempo quello che era il
nostro repertorio, adattandolo all’occasione. L’aspetto sicuramente
positivo, della piega che avevano preso gli avvenimenti, era dato dalla
scoperta di un linguaggio musicale che portava alla costruzione di veri e
propri “pezzi” che successivamente divennero canzoni. Una miscela
costituita d’arrangiamenti musicali che si muovevano liberamente
attraverso i generi, unendoli a performance teatrali e gags comiche
produceva un ibrido che iniziava ad interessare e divertire un sempre
maggiore numero di persone. Quale risultato avrebbe prodotto una ricerca
in questa direzione? La mia storia col gruppo s’interruppe nel 1984 dopo
la prima dell’ultima produzione che ci vide insieme “Faxy City”.
Dal 1979, al 1984 avevamo condiviso tutto o quasi, eravamo passati
attraverso esperienze atipiche, lavorando in scuole di diverso grado,
carceri minorili, locali e circoli underground di mezza Italia, nelle
piazze del Sud, nei festival dell’Unità della provincia, nelle fiere e
nelle sagre di paese, in qualche televisione locale ed anche sul primo
canale Nazionale. Ci eravamo misurati con diverse forme di spettacolo,
acquistando esperienze in tutti gli ambiti della produzione. Da quel
momento altri avrebbero proseguito il cammino. Anche se mai sarebbe più
stato come prima, almeno per me.
(Continua)
Antonio Iorio
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