POTLATCH LOCATION
Carnevale 1982 a Calvi Risorta
Le produzioni del gruppo Potlatch si differenziavano
tra di esse per tipologia di pubblico a cui erano rivolte. Avevamo gli
spettacoli per bambini che venivano prodotti o adattati a seconda della
fascia di età scolare o prescolare. Avevamo lo spettacolo per le piazze,
ed avevamo uno studio annuo, su di un tema, che forniva materiale per
tutte le produzioni. Esistevano poi gli eventi unici, occasioni in cui il
gruppo veniva chiamato in un contesto particolare che determinava da solo
la forma dello spettacolo. Queste, erano senza dubbio le occasioni in cui
il gruppo dava il meglio di sè. Sia perché la performance era stata la
prima forma sperimentata e condivisa, sia perché l’evento unico
sottraeva lo spettacolo alla routine della produzione in repliche. Anche
se produceva un dispendio di energie che non trovava spazio nel tempo.
L’idea che uno spettacolo nascesse e morisse nello
spazio in cui era stato pensato; e, per lo spazio e le sue caratteristiche
rendeva onore ad una forma di spettacolo blitz che sembrava essere la più
consona alla caducità dei tempi correnti. Questa forma significava anche
altro, essa voleva dire: non possiamo fare di più, in questo momento, che
cogliere la fuggevolezza, l’estremo fascino del vivere l’istante.
Pensieri di vita e morte irripetibile venivano condensati in un tempo di
scena contratto. L’emozione piccolissima, l’evanescenza di un suono
rimasto nelle orecchie, poteva costituire l’elemento di base per un
evento.
Ricordo una volta “Gianni V.” ritorno’ da un viaggio a Lisbona
affascinato da qualcosa che non riusciva a spiegare, porto’ con se
alcune fotografie, fatte da lui, dove si vedevano strade luminose e
colorate, gente tranquilla, ricordo distintamente un tram giallo con sulla
fiancata la propaganda elettorale. Lo guardammo negli occhi, quell’anno
lo spettacolo prodotto si sarebbe chiamato “Lisboa”. Non abbiamo mai
avuto la pazienza di chiedergli se in qualche modo avessimo centrato l’obiettivo,
sempre che il nostro obiettivo fosse rimasto lo stesso, ed in maniera
eguale per tutti. Tante erano le variabili che intervenivano. Purtuttavia,
lo spazio nella sua completa totalità, costituiva l’elemento più
determinante per gli eventi speciali. Esistono dei luoghi che hanno già
scritto nell’anima cosa deve essere fatto. Essi sono perfetti cosi, come
sono, non hanno bisogno di nulla. In alcuni casi basta accendere una luce,
di notte, e puntarla sul sito. In altri casi basta vederlo ad un ora
particolare del giorno o in una determinata stagione, ed allora appare,
appare la storia scritta nell’aria e nelle pietre, nei vetri rotti e
nelle tracce lasciate da qualcuno, dall’uomo , dalla sua presenza. Lo
spettacolo sarebbe già finito se non fosse ancora iniziato. E noi,
iniziavamo da li’. Il momento più importante era il primo sopralluogo.
Alcune volte partivamo con l’intento di ricercare “il luogo” altre
volte siamo stati miracolati, capitavamo in un luogo per caso, in un
momento inaspettato o venivamo deviati in quel luogo. Sembrava quasi
che quel posto ci attendesse da anni. Lo scoprivamo, poi, dalle parole di
qualcuno buttate li, piccole, in un discorso che non c’entrava niente
“Perché...li, alla torre ne son successe di cose, se i muri parlassero!”
e ancora “Era ora che qualcuno facesse qualcosa per il vecchio castello!”
.La gente, soprattutto gli anziani, ma tutte le persone sensibili,
avvertivano un senso di colpa verso quel luogo importante abbandonato alla
rovina. Il nostro intervento risvegliava l’attenzione, stimolava le
idee. Durante il primo sopralluogo ritornavamo bambini; il luogo,
diventava il posto prescelto per il gioco, ed il gioco era tutto da
inventare e costruire. Ricordatevi quando bimbi, dividevate lo spazio
reale intorno a voi, trasformando le dimensioni reali in misure e luoghi
immaginari. Noi, facevamo esattamente la stessa cosa. Non tutto quello che
pensavamo riuscivamo a fare ma questo faceva parte del gioco. Abbiamo
trascorso il tempo, seduti su di una pietra, tagliati dal vento, sul molo
di una città, tra i merli di una torre, in una stanza vuota, in una
strada affollata, in un vecchio Teatro. Abbiamo costruito macchine mentali
formidabili che s’infrangevano contro i bastioni della produttività, si
distruggevano in mille briciole e noi le ricostruivamo più ingegnose.
Abbiamo fatto viaggi di andata pieni di attese e viaggi
di ritorno laboriosi. Alle volte poteva anche capitare che partivamo per
una serata in un luogo sconosciuto e giunti a destinazione, affascinati
dal posto, modificavamo sostanzialmente la scaletta degli eventi. Più
tardi negli anni, diventammo più sofisticati, imparammo che si poteva
inserire qualche elemento fondamentale a cambiare la natura del luogo,
quando quest’ultimo non ci soddisfaceva. Accadeva di rado, una delle
nostre teorie, più praticata che teorizzata, diceva che qualsiasi luogo a
degli elementi teatrali. Del resto eravamo aiutati da una Architettura
straordinaria. Cosa sono gli scalini davanti ad una chiesa o ad un
edificio se non il proscenio di un palcoscenico permanente, allestito per
una rappresentazione quotidiana.
I mille angoli dei nostri paesini sono fondali e quinte
favolosi. La gente é quanto di meglio ci si può aspettare da un
pubblico; anzi, definirli pubblico, nell’accezione passiva, é
riduttivo. La loro partecipazione li rendeva coprotagonisti. Addirittura
invadenti in alcune occasioni. Il discorso sullo spazio é per forza di
cose collegato alla gestione della scena. A parte la “Pantomima
scarlatta” e “Faxy city” che hanno avuto un progetto scenico
dettagliato, in tutte le altre occasioni vinceva la natura dello spazio
disponibile. L’accento era marcato sull’utilizzo in totale dello
spazio, sulla percorribilità, dello spettacolo e dello spettatore. In un
unico caso (Roma, testaccio 1989) abbiamo denaturato il prato erboso
prospiciente il palcoscenico, allagandolo ininterrottamente per
ventiquattro ore, per creare un pantano dove aveva luogo l’azione.
Abbiamo sempre tentato di sorprendere lo spettatore alle spalle e da più
punti. Gli abbiamo chiesto di seguirci e ci ha seguito. Abbiamo occupato
lo spazio verticale di una piazza utilizzando una torre, un campanile, un
alto edificio. Tutto questo avveniva quando l’organizzazione ci metteva
a disposizione un filo elettrico con tre lampadine da cento watt, ed una
tromba collegata ad una batteria di una macchina sotto il palco. Mentre
intorno friggevano le salsiccie e le cime di rapa.
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