Il Pubblico
1980, teatro ambulante a
Casolla
Gli animi si scaldavano, gli animi si scaldano quando
hanno bisogno di una valvola di sfogo, quando si esagera con gli alcoolici,
quando si appartiene ad una cultura in cui l’uomo deve essere in grado d’ingurgitare
delle quantità esagerate di alcool per dimostrare di essere “uomo”.
uno dei giochi più significativi di questa cultura é il famoso “padron’
e sott’” Non a caso il suo nome e il suo meccanismo riproduce uno
schema a cui bisogna sottostare, come metafora del potere. Mentre qualcuno
si agita perche ha bevuto, gli altri semplicemente approfittano della
situazione per aumentare il divertimento. Alcuni altri sono cosi semplici
e sinceri che sentono la partecipazione ad uno spettacolo solo se si
sentono coinvolti passionalmente. Questa, credetemi é una miscela
esplosiva che bisogna saper governare e non sempre ci si riesce.
Il pubblico degli spettacoli di piazza era
sostanzialmente lo stesso, frequentatore, dei Festival dell’Unità. In
verità, come gruppo alternativo, abbiamo fatto molti F.d. U. e poche
feste di piazza. Chi non é pratico della zona si chiederà quanto sia
importante la differenza, se poi il pubblico é lo stesso. Alcune
differenze ci sono: la festa di piazza di solito é una festività a
carattere religioso, riproduce una antica tradizione e si muove in un
ambito tradizionale. Le nostre apparizioni nelle feste di piazza sono
sempre state “clandestine” mascheravamo le nostre tendenze di
sperimentatori per vestire, come i mitici Blues Brothers, i panni del
gruppo richiesto. I Festival dell’Unità, hanno rappresentato per noi,
per un lungo periodo, la principale fonte di redditto stagionale, di
questo va reso merito agli organizzatori di allora, i quali, si dicevano
“se noi siamo l’alternativa dobbiamo proporre un programma culturale
alternativo” e chiamavano noi, a ragione. Perche noi, in quel momento
eravamo l’alternativa più popolare, forse l’unica presente sul
territorio. Tutto questo farà sorridere alcuni, ma noi stiamo parlando in
questo momento di soldi, e i soldi in quegli anni il potere democristiano
non li dava certo ai Potlatch; eravamo fuori da tutti i progetti culturali
istituzionali, era risaputo all’epoca, che i pochi fondi venivano
distribuiti in maniera clientelare a quelle realtà che manifestavano un
certo consenso o almeno una frequentazione, un affinità con il potere
locale. Il festival dell’Unità in Terra di lavoro ha rappresentato per
anni l’unica alternativa alla cultura dominante. Per la sua
sopravvivenza; ha riprodotto gli stessi schemi della festa popolare ma con
icone diverse, ci ha infine consentito di conoscere a fondo la gente della
terra di lavoro. Il pubblico era irruento, partecipativo, invadente,
aggressivo, maschilista, tradizionalista, sincero. Avvertiva, che in
qualche modo baravamo, giocavamo a fingere di accontentarli per proporre
le nostre cose. Il pubblico manifestava la sua approvazione o protesta
apertamente, anche violentemente. Ricordo ancora l’esibizione di un
avambraccio con un tatuaggio di un arma, alzato in una piazza dell’Aversano.
Ricordo le minacce che arrivarono poco velate, per non aver soddisfatto i
desideri di un personaggio. Ricordo il poco rispetto della donna sul
palcoscenico, la quale, qualunque ruolo avesse, doveva comunque essere una
“puttana”. Ma non dimentichero’ le mille occasioni in cui ricevemmo
accoglienza, ospitalità, generosità, manifesazioni di affetto e
simpatia. Pubblici particolari richiedevano attenzioni particolari, le
esperienze con i pubblici difficili sono quelle in cui imparammo di più.
Imparammo ad ascoltare l’umore della folla, ed a reagire di conseguenza;
il primo passo per diventare animali da palcoscenico. Il primo anno in cui
realizzammo uno spettacolo per le scuole realizzammo una libera
interpretazione dal “Piccolo principe”. Considerammo il viaggio del
principe in unico segmento inventato; un pianeta dove una strega cattiva
aveva paralizzato i suoni, la lotta tra il bene ed il male avrebbe portato
alla liberazione dei suoni e dei rumori.
Quando ci chiesero di portarlo in una scuola di grado
inferiore lo semplificammo, per renderlo più accessibile. Ma commettemmo
alcuni errori: il mio trucco in particolare era eccessivo, eccessiva era
la trasformazione del corpo dell’attore. Essi avevano bisogno di un
immagine più vicina alla realtà, più rassicurante. Il risultato fu che
qualche bimbo a cui mi avvicinai troppo e con troppo impeto, scoppio’ in
lacrime per essere poi calmato dalle imbarazzate insegnanti. Quella
lezione c’insegno’ che trattavamo con un pubblico che aveva una
sensibilità estrema; un pubblico in grado di avvertire le emozioni più
leggere, ogni piccolo passo doveva essere studiato nei minimi particolari.
Iniziammo allora a proporre una serie d’incontri
preliminari, una vaga idea di laboratorio teatrale per le scuole.
Incontrammo forti resistenze, allora, intralciavamo con il normale
svolgimento delle attività didattiche. Oggi nella Regione in cui vivo, ma
su tutto il territorio nazionale, il Teatro é entrato a pieno titolo nei
programmi curriculari delle scuole di ogni ordine e grado. Il Teatro nelle
scuole oggi, é diventato l’esempio più concreto del tentativo di
accorciare i tempi tra la realtà sociale e la scuola. Con i bambini
nessun attore puo’ barare, essi sono in grado di percepire se sei
autenticamente coinvolto da quello che stai facendo. I Bambini sono
talmente sinceri che se percepiscono un certo distacco professionale,
iniziano ad occuparsi dei fatti loro, non avendo la discrezione di
considerare il lavoro di un attore poco impegnato.
L’esperienza più disastrosa, dal mio punto di vista, l’ebbi con un
pubblico di bambini portatori di handicap; essi erano abituati ad essere
al centro delle attenzioni di tutto il loro mondo, scuola e famiglia, un
attenzione particolare a volte direi eccessiva e deleteria. Mal
sopportavano l’impostazione dell’attore il quale fa di tutto per
essere, lui, il centro dell’attenzione. Rubando di fatto il loro ruolo.
Ci sarebbe voluto uno studio approfondito per capire come intervenire con
quel tipo di pubblico. I bambini delle elementari e gli adolescenti erano
il nostro pubblico più adatto, ma gli adolescenti di strada, di alcuni
paesi dell’Aversano costituirono una prova da superare. Provammo a
raccontare loro le storie che portavamo ai loro coetanei, ma essi derisero
i nostri programmi. portammo loro le storie per gli adulti ma anche di
quest’ultime essi accettavano solo le più dure e trasgressive. Finché
un giorno ci venne un colpo di genio. Ci accorgemmo, in un occasione, (l’idea
fu di Agos.) quando improvissammo un discorso di un personaggio politico,
il quale doveva cadere vittima di un attentato, che la reazione al
moralismo del personaggio era immediata. Essi associavano immediatamente l’idea
del personaggio politico con quella di un nemico da cui difendersi. Non a
caso l’idea sovversiva, di teatralizzare l’uccisione di un presidente,
era stata subito approvata all’unanimità dal gruppo. Avevamo bisogno di
stringere un contatto con quella gente, metterci dalla loro parte.
Scoprimmo subito che il pubblico di adolescenti simpatizzava per i
criminali anziché per i difensori dell’ordine pubblico. I loro modelli
positivi erano costituiti dai malavitosi emergenti della zona. Quelli che
in poco tempo avevano trovato il modo di avere denaro a sufficienza da
esibire i simboli della loro nuova posizione. L’unico modo che essi
conoscevano per uscire dallo squallore delle loro vite. Decidemmo allora
di teatralizzare tutti i piccoli esempi di criminalità quotidiana: lo
scippo della borsetta, lo strappo della catenina, il borseggio, l’estorsione.
Non avevamo nessuna intenzione moralizzatrice. Anche perché saremmo stati
subito rifiutati. Noi non prendevamo, in scena, nessuna posizione; anzi,
nei nostri discorsi con loro ,nei gruppetti che si formavano, eravamo
apertamente contro l’ordine costituito. La nostra intenzione era quella
di spettacolarizzare i personaggi mitici delle loro azioni e gesta
quotidiane. Noi esageravamo la parte della vittima, ridicolizzandola il
più possibile, in questo modo forse, speravamo di suscitare la loro
pietà. Questo era l’unico, il maggiore intento morale che potevamo
proporci. Altri non ce n’erano e non avrebbero potuto esserci. Il lavoro
sarebbe stato molto lungo, l’unica posizione positiva poteva essere
quella di visibilizzare il ruolo della vittima, che per chi si accinge ad
un crimine deve essere qualcosa d’impersonale, incorporeo. Era
interessante anche la modalità in cui avenivano le teatralizzazioni.
Giravamo con un furgone chiuso attrezzato, i nostri erano dei veri blitz,
copiati dai modelli televisivi degl’interventi delle forze speciali.
Scendevamo in massa dal furgone nei luoghi convenuti ed allestivamo in
pochi secondi delle situazioni teatrali. Il primo esempio lo davamo noi,
tra la folla per strada, poi, chiedevamo alla gente, che nel frattempo si
era radunata, se c’era qualcuno disposto a farci vedere come si faceva
nella realtà; all’inizio trovavamo qualche ritrosia ma, sciolto il
ghiaccio iniziale, gareggiavano a chi rappresentava meglio l’impatto
reale, la maggiore abilità. Un sott’inteso mostruoso era sottaciuto, i
più abili dovevano essere dei veri esperti. Che cosa significava per
loro? Dentro di me ho sempre sperato che le grida drammatizzate delle
vittime risuonassero tra le risate in modo amaro. Il rito sacrificale
doveva esorcizzare il male. Il male rappresentato poteva forse indebolire
il potere reale che il crimine esercitava nel loro immaginario. Ho
immaginato che nelle loro menti il fatto, che fosse loro consentito
rappresentare un atteggiamento criminale, servisse a smitizzare il crimine
stesso. quel crimine doveva conservare da qualche parte un aspetto eroico
di sfida al proprio coraggio ed alla società intera. (Questo concetto,
estrapolato dal contesto, se ci pensate un attimo, é il massimo assoluto
della democrazia, una società che consenta a ciascun individuo di vincere
la propria sfida personale e provare le sue capacità.) Se era possibile,
autorizzare la sua rappresentazione non doveva essere poi tanto eroico,
ragionando con lo stesso codice d’onore che muoveva i loro
atteggiamenti. Ed il dolore della vittima poteva suonare come il
campanello che li risvegliava dall’egoismo ipnotico in cui erano
addormentati. Sono convinto che questo era l’unico modo per entrare nei
loro cuori e nelle loro menti e sono felice di averlo messo in atto.
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