Archivio dei musicisti e gruppi casertani

Potlatch
animazione / teatro / musica 

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I Potlatch parte 14°:
Il Pubblico
di Antonio Iorio

Il Pubblico


1980, teatro ambulante a Casolla

Gli animi si scaldavano, gli animi si scaldano quando hanno bisogno di una valvola di sfogo, quando si esagera con gli alcoolici, quando si appartiene ad una cultura in cui l’uomo deve essere in grado d’ingurgitare delle quantità esagerate di alcool per dimostrare di essere “uomo”. uno dei giochi più significativi di questa cultura é il famoso “padron’ e sott’” Non a caso il suo nome e il suo meccanismo riproduce uno schema a cui bisogna sottostare, come metafora del potere. Mentre qualcuno si agita perche ha bevuto, gli altri semplicemente approfittano della situazione per aumentare il divertimento. Alcuni altri sono cosi semplici e sinceri che sentono la partecipazione ad uno spettacolo solo se si sentono coinvolti passionalmente. Questa, credetemi é una miscela esplosiva che bisogna saper governare e non sempre ci si riesce.

Il pubblico degli spettacoli di piazza era sostanzialmente lo stesso, frequentatore, dei Festival dell’Unità. In verità, come gruppo alternativo, abbiamo fatto molti F.d. U. e poche feste di piazza. Chi non é pratico della zona si chiederà quanto sia importante la differenza, se poi il pubblico é lo stesso. Alcune differenze ci sono: la festa di piazza di solito é una festività a carattere religioso, riproduce una antica tradizione e si muove in un ambito tradizionale. Le nostre apparizioni nelle feste di piazza sono sempre state “clandestine” mascheravamo le nostre tendenze di sperimentatori per vestire, come i mitici Blues Brothers, i panni del gruppo richiesto. I Festival dell’Unità, hanno rappresentato per noi, per un lungo periodo, la principale fonte di redditto stagionale, di questo va reso merito agli organizzatori di allora, i quali, si dicevano “se noi siamo l’alternativa dobbiamo proporre un programma culturale alternativo” e chiamavano noi, a ragione. Perche noi, in quel momento eravamo l’alternativa più popolare, forse l’unica presente sul territorio. Tutto questo farà sorridere alcuni, ma noi stiamo parlando in questo momento di soldi, e i soldi in quegli anni il potere democristiano non li dava certo ai Potlatch; eravamo fuori da tutti i progetti culturali istituzionali, era risaputo all’epoca, che i pochi fondi venivano distribuiti in maniera clientelare a quelle realtà che manifestavano un certo consenso o almeno una frequentazione, un affinità con il potere locale. Il festival dell’Unità in Terra di lavoro ha rappresentato per anni l’unica alternativa alla cultura dominante. Per la sua sopravvivenza; ha riprodotto gli stessi schemi della festa popolare ma con icone diverse, ci ha infine consentito di conoscere a fondo la gente della terra di lavoro. Il pubblico era irruento, partecipativo, invadente, aggressivo, maschilista, tradizionalista, sincero. Avvertiva, che in qualche modo baravamo, giocavamo a fingere di accontentarli per proporre le nostre cose. Il pubblico manifestava la sua approvazione o protesta apertamente, anche violentemente. Ricordo ancora l’esibizione di un avambraccio con un tatuaggio di un arma, alzato in una piazza dell’Aversano. Ricordo le minacce che arrivarono poco velate, per non aver soddisfatto i desideri di un personaggio. Ricordo il poco rispetto della donna sul palcoscenico, la quale, qualunque ruolo avesse, doveva comunque essere una “puttana”. Ma non dimentichero’ le mille occasioni in cui ricevemmo accoglienza, ospitalità, generosità, manifesazioni di affetto e simpatia. Pubblici particolari richiedevano attenzioni particolari, le esperienze con i pubblici difficili sono quelle in cui imparammo di più. Imparammo ad ascoltare l’umore della folla, ed a reagire di conseguenza; il primo passo per diventare animali da palcoscenico. Il primo anno in cui realizzammo uno spettacolo per le scuole realizzammo una libera interpretazione dal “Piccolo principe”. Considerammo il viaggio del principe in unico segmento inventato; un pianeta dove una strega cattiva aveva paralizzato i suoni, la lotta tra il bene ed il male avrebbe portato alla liberazione dei suoni e dei rumori.

Quando ci chiesero di portarlo in una scuola di grado inferiore lo semplificammo, per renderlo più accessibile. Ma commettemmo alcuni errori: il mio trucco in particolare era eccessivo, eccessiva era la trasformazione del corpo dell’attore. Essi avevano bisogno di un immagine più vicina alla realtà, più rassicurante. Il risultato fu che qualche bimbo a cui mi avvicinai troppo e con troppo impeto, scoppio’ in lacrime per essere poi calmato dalle imbarazzate insegnanti. Quella lezione c’insegno’ che trattavamo con un pubblico che aveva una sensibilità estrema; un pubblico in grado di avvertire le emozioni più leggere, ogni piccolo passo doveva essere studiato nei minimi particolari.

Iniziammo allora a proporre una serie d’incontri preliminari, una vaga idea di laboratorio teatrale per le scuole. Incontrammo forti resistenze, allora, intralciavamo con il normale svolgimento delle attività didattiche. Oggi nella Regione in cui vivo, ma su tutto il territorio nazionale, il Teatro é entrato a pieno titolo nei programmi curriculari delle scuole di ogni ordine e grado. Il Teatro nelle scuole oggi, é diventato l’esempio più concreto del tentativo di accorciare i tempi tra la realtà sociale e la scuola. Con i bambini nessun attore puo’ barare, essi sono in grado di percepire se sei autenticamente coinvolto da quello che stai facendo. I Bambini sono talmente sinceri che se percepiscono un certo distacco professionale, iniziano ad occuparsi dei fatti loro, non avendo la discrezione di considerare il lavoro di un attore poco impegnato.
L’esperienza più disastrosa, dal mio punto di vista, l’ebbi con un pubblico di bambini portatori di handicap; essi erano abituati ad essere al centro delle attenzioni di tutto il loro mondo, scuola e famiglia, un attenzione particolare a volte direi eccessiva e deleteria. Mal sopportavano l’impostazione dell’attore il quale fa di tutto per essere, lui, il centro dell’attenzione. Rubando di fatto il loro ruolo. Ci sarebbe voluto uno studio approfondito per capire come intervenire con quel tipo di pubblico. I bambini delle elementari e gli adolescenti erano il nostro pubblico più adatto, ma gli adolescenti di strada, di alcuni paesi dell’Aversano costituirono una prova da superare. Provammo a raccontare loro le storie che portavamo ai loro coetanei, ma essi derisero i nostri programmi. portammo loro le storie per gli adulti ma anche di quest’ultime essi accettavano solo le più dure e trasgressive. Finché un giorno ci venne un colpo di genio. Ci accorgemmo, in un occasione, (l’idea fu di Agos.) quando improvissammo un discorso di un personaggio politico, il quale doveva cadere vittima di un attentato, che la reazione al moralismo del personaggio era immediata. Essi associavano immediatamente l’idea del personaggio politico con quella di un nemico da cui difendersi. Non a caso l’idea sovversiva, di teatralizzare l’uccisione di un presidente, era stata subito approvata all’unanimità dal gruppo. Avevamo bisogno di stringere un contatto con quella gente, metterci dalla loro parte. Scoprimmo subito che il pubblico di adolescenti simpatizzava per i criminali anziché per i difensori dell’ordine pubblico. I loro modelli positivi erano costituiti dai malavitosi emergenti della zona. Quelli che in poco tempo avevano trovato il modo di avere denaro a sufficienza da esibire i simboli della loro nuova posizione. L’unico modo che essi conoscevano per uscire dallo squallore delle loro vite. Decidemmo allora di teatralizzare tutti i piccoli esempi di criminalità quotidiana: lo scippo della borsetta, lo strappo della catenina, il borseggio, l’estorsione. Non avevamo nessuna intenzione moralizzatrice. Anche perché saremmo stati subito rifiutati. Noi non prendevamo, in scena, nessuna posizione; anzi, nei nostri discorsi con loro ,nei gruppetti che si formavano, eravamo apertamente contro l’ordine costituito. La nostra intenzione era quella di spettacolarizzare i personaggi mitici delle loro azioni e gesta quotidiane. Noi esageravamo la parte della vittima, ridicolizzandola il più possibile, in questo modo forse, speravamo di suscitare la loro pietà. Questo era l’unico, il maggiore intento morale che potevamo proporci. Altri non ce n’erano e non avrebbero potuto esserci. Il lavoro sarebbe stato molto lungo, l’unica posizione positiva poteva essere quella di visibilizzare il ruolo della vittima, che per chi si accinge ad un crimine deve essere qualcosa d’impersonale, incorporeo. Era interessante anche la modalità in cui avenivano le teatralizzazioni. Giravamo con un furgone chiuso attrezzato, i nostri erano dei veri blitz, copiati dai modelli televisivi degl’interventi delle forze speciali. Scendevamo in massa dal furgone nei luoghi convenuti ed allestivamo in pochi secondi delle situazioni teatrali. Il primo esempio lo davamo noi, tra la folla per strada, poi, chiedevamo alla gente, che nel frattempo si era radunata, se c’era qualcuno disposto a farci vedere come si faceva nella realtà; all’inizio trovavamo qualche ritrosia ma, sciolto il ghiaccio iniziale, gareggiavano a chi rappresentava meglio l’impatto reale, la maggiore abilità. Un sott’inteso mostruoso era sottaciuto, i più abili dovevano essere dei veri esperti. Che cosa significava per loro? Dentro di me ho sempre sperato che le grida drammatizzate delle vittime risuonassero tra le risate in modo amaro. Il rito sacrificale doveva esorcizzare il male. Il male rappresentato poteva forse indebolire il potere reale che il crimine esercitava nel loro immaginario. Ho immaginato che nelle loro menti il fatto, che fosse loro consentito rappresentare un atteggiamento criminale, servisse a smitizzare il crimine stesso. quel crimine doveva conservare da qualche parte un aspetto eroico di sfida al proprio coraggio ed alla società intera. (Questo concetto, estrapolato dal contesto, se ci pensate un attimo, é il massimo assoluto della democrazia, una società che consenta a ciascun individuo di vincere la propria sfida personale e provare le sue capacità.) Se era possibile, autorizzare la sua rappresentazione non doveva essere poi tanto eroico, ragionando con lo stesso codice d’onore che muoveva i loro atteggiamenti. Ed il dolore della vittima poteva suonare come il campanello che li risvegliava dall’egoismo ipnotico in cui erano addormentati. Sono convinto che questo era l’unico modo per entrare nei loro cuori e nelle loro menti e sono felice di averlo messo in atto.

 

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