Gerardo Del Prete - Intervista |
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Intervista di Pietro Di Lorenzo - 31 Ottobre 2000 Incontrare Gerardo Del Prete e avviare una conversazione franca, schietta, spontanea, divertente ma allo stesso tempo profonda, intelligente, si direbbe (ma è fuori moda) impegnata, è tutt’uno. Il discorso scivola via veloce, apparentemente senza lasciare segni palesi fermando e “fotografando” impressioni ed emozioni. Un turbinio di parole inarrestabili non per velocità o quantità ma per potenza evocativa e forza impressiva. D’altra parte la sua “pittura” (ma il termine è riduttivo), il suo essere artista è questo. Gli chiedo da dove nasca il suo fare arte. “Qualche tempo fa ebbi l’intuizione che ti racconto. Mi sembrò (e ora ne sono sempre più convinto) che il dipingere sia come l’azione di un maratoneta. Davanti hai, ma molto lontano, un obiettivo, non hai neppure la certezza di raggiungerlo né sai se le forze (fisiche e psichiche) ti sorreggeranno fino al traguardo. Ma poi è proprio da quello sforzo continuo di restare sulla strada, dando forze alle energie più intime, dimenticando la pensantezza dei muscoli e la stanchezza, che nasce la leggerezza e la linea che ti guida. E allora tutta la fatica scompare, diventi leggero e dai tutto il meglio di quello che puoi e senti di dare, trovando soluzioni che, a mente fredda, neanche immaginavi. Allora metti a fuoco davvero il problema e ti si palesano, chiare come mai lo immagineresti, le risposte giuste. Sul filo dello stress.” Motivi etici nella ricerca estetica, volontà di comunicare e cosa altro ? “Tutto sommato il fare artistico è l’unica strada che mi è congeniale nella comunicazione con gli altri. Sensazioni ed emozioni credo di poterle (e doverle) trasmettere così. Chiaramente, c’è una componente insostituibile di protagonismo, di voglia di esprimersi e di esporsi, nelle più intime convinzioni, che è una richiesta di attenzione ed una ricerca, indiretta, di soddisfazione. Ma non è certo la valutazione economica il parametro del mio “pacificarmi” ma il coinvolgimento dei fruitori delle opere, di coloro (soprattutto quando giovani e giovanissimi) che anche sulle tematiche più astratte trovano il canale giusto per entrare in comunicazione con il mio sforzo espressivo. Solo questo mi realizza davvero. Certo, ogni volta che allestisco mostre capitano sempre amici che spronano ed incoraggiano l’iniziativa: anche questa volta l’occasione la debbo agli amici del Centro Iniziative Artistiche e Culturali M 21 “Raffaele Soletti”, che mi hanno spinto (quasi costretto) e coinvolto. Debbo a loro un ringraziamento per l’aiuto e la partecipazione sempre mostrata alla mia opera.” Come nasce l’esperienza artistica di Gerardo Del Prete, quali i percorsi formativi, i maestri ? “Non ho avuto una formazione accademica, anzi tutt’altro. Ho studiato alle “Scuole tecniche di meccanica” ma riconosco proprio in quella occasione giovanile la fonte prima della mia curiosità, la mia voglia di capire fino in fondo la materia, di osservarla, di studiarla, di ascoltarne i richiami profondi, le misteriosi e imperscrutabili evocazioni. Dalle conoscenze e dalla manualità apprese in quegli anni ho imparato a rispettare e a conoscere i materiali e le loro proprietà. Li ho saggiati in tutte le “prove” di laboratorio : mi hanno affascinato e mi continuano ad incantare. Mi riconosco in alcuni linguaggi del recente passato, tra cui alcuni divisionisti italiani (Segantini e il divisionismo toscano che trovo più maturo ed efficace dell’impressionismo francese perché la materia è molto più presente). Questa applicazione del colore, puntinato, che attraverso la distribuzione non uniforme ricrea e ridona la vita del personaggio ad una immagine. Collegare la scienza e la tecnica nelle arti non deve essere un obbligo a tutti i costi, ma è una soluzione personale di espressione. Sono convinto, d’altra parte, che la bellezza e la conoscenza creativa artistica avvicinino meglio alla natura e alla comprensione dei fenomeni che non la scienza. La vita è presente nelle cose, anche la nostra vita (pure quella quotidiana) è riflessa in esse; in tutto il nostro quotidiano visivo chiediamo e cerchiamo effetti di vita. L’astrazione, come conoscenza del particolare, anche scientifico, come atomismo irriducibile, è una conseguenza dello scendere sempre più in profondità. Anche nelle tematiche sono partito da altro ed anche questa è solo una tappa di un percorso: dall’amore del paesaggio (con la scoperta di non poter impressionare nulla del tempo che scorre) sono passato alla action-painting e ho amato e sentito vicini i futuristi la bramosia sperimentale di cogliere (senza riuscirvi) il movimento delle cose.” Quanto pesano le fonti “umane”, le letture, il cinema (Gerardo è un esperto), la musica ? “Per me sono determinanti. Ho dato ad alcune mie opere il titolo di libri. I grandi scrittori della letteratura russa, Proust, Calvino, ma leggo e divoro” (nel senso tribale di fare propria la vita che è presente ivi, sembra dire, n.d.r.) “quasi tutto a dire il vero. Anche la letteratura giapponese che ho avvicinato nella cinematografia di Akira Kurosawa. Il contatto totale, “panico”, raffinato per la linearità del tratto stilistico e misterioso come un po’ tutta la cultura orientale. Kurasowa dipinge quando fa i film. Ad esempio in “Sogni” si entra in un quadro di Van Gogh. E poi : colori astratti, vere e proprie macchie di colore in movimento più che icone umane. Il personaggio è reso, nell’emotività, attraverso la sua figurazione. Anche il rapporto con la natura : gli uomini abitano le montagne, la campagne, lavorano a certe cose, toccano le rocce, la seta (lisciata nella neve). Il parlare delle cose le chiama a sé, le materializza in sensazioni. I rapporti umani sono leggibili ed hanno un senso solo così. La musica spesso ha agito da tramite, da catalizzatore delle emozioni genetiche di una opera tanto che alla fine al risultato ottenuto non ho potuto fare a meno di riconoscere il nome musicale. La musica mi sostiene nell’attività e mi ispira.” Linguaggio e tecnica. “Della tecnica in sé, non ha mai avuto paura, non mi sono mai dato pensiero di apprenderne una. Sono le mani che la fanno e che la maturano. Nel mio magma interiore però ho trovato il mio linguaggio personale. Noi riconosciamo e decodifichiamo le opere solo quando cominciamo a muoverci al loro interno, attraverso delle linee franche che, quasi feed-back, ritornano nella nostra conoscenza come emozioni. E spesso queste emozioni le sento provenire dai cosiddetti materiali poveri: le cose di consumo che noi, quando le rompiamo, le riteniamo inservibili o solo obsolete, allontaniamo da noi abbandonandole nei luoghi più impensati e non solo le discariche ma anche le periferie delle città. Quelle cose da noi manipolate ed usate che crediamo di distruggere, di cancellare con l’allontanamento continuano a vivere e a parlarci, a dimostrarci continuamente di avere una propria individualità, una propria vita. Tutti gli stili pittorici, d’altra parte, recuperano questa condizione di frontiere della materialità, di confini in cui, pur perdendosi una qualità razionale, un ordine, si guadagna la fantasia, il caos. Nelle discontinuità la materia diventa più veloce, scattante, viva. Tutti gli artisti del passato hanno dovuto risolvere i problemi limite (trovare le soluzioni al contorno direbbero un fisico o un matematico). Ciascuno ha trovato una propria soluzione. Esemplare in ciò è l’esperienza “fauve” in cui i contorni microscopicamente marcati a delimitare le figure cercano, ma senza risultato, di realizzare l’obiettivo della nettezza, della dicotomia, della separazione. Ma inutilmente. Perché la materia, il colore, fluiscono inevitabilmente.” A cura di P. Di Lorenzo © Casertamusica.com - 2000 |
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