“Giorni felici” con Nicoletta Braschi e Roberto De Francesco
Caserta – 21 Dicembre 2013
Articolo di Rossella Barsali
“Autentica, garantita, genuina, purissima…”
Sarà un ossimoro, ma questi Giorni Felici che precedono il Natale lasciano un
profondo senso di disagio esistenziale assieme all’intima soddisfazione di…
vederlo superbamente rappresentato; e non si tratta di una magra soddisfazione.
Imprescindibile, fin dalla scenografia, che evoca i mega plastici playmobil anni
’90 (”il caro vecchio stile!” direbbe Winnie), e sottolinea il surreale e
l’inazione nella quale trova via via sepoltura Winnie, e sulla quale vaga
strisciando Willie, suo consorte ed alter ego, sia per fonesi che per destino.
C’è modo e modo di sprofondare, modo e modo di strisciare.
La Winnie di Nicoletta Braschi sprofonda con leggerezza ed eleganza, conscia
della sua condizione di immobilità, ma senza mai farne patire al suo
interlocutore né “agli occhi che mi guardano” (cit. "Giorni Felici” ndA). Infila
piccole perle di intuizioni nella lunga collana di ogni “giorno divino” che si
prepara a vivere; talvolta sono ricordi, talvolta raccomandazioni al suo amato
Willie, talvolta stralci di filosofia spicciola, o citazioni di poesie
squisitamente immortali. Piccoli esercizi di memoria, piccole vanità, la sua
borsa, lo specchio, il rossetto, accompagnati dalla compiutezza di ogni gesto
che sarà definitivo. Così per la sua pistola, anzi la LORO Browning: piazzata
con la bocca verso se stessa, in un gesto che sa più di scherzo pericoloso che
di suicidio. Winnie sa di non potersi suicidare, ne andrebbe del suo inguaribile
ottimismo, del “meraviglioso” che ella trova di ogni cosa, anzi in ogni cosa
“che vive”. Non v’è traccia di rimpianto, né di biasimo: sorregge a parole
l’immane fardello coniugale, quasi sempre senza ricevere risposta, né sguardi.
Le rimane il gesto, e poi, in fondo, solo la mimica facciale: ma quando si è
perso tutto, anche una serie di aggettivi che definiscono le “setole animali”
determinano la felicità di un giorno. E soprattutto anche il solo sapere che
Willie è lì, alle sue spalle, “a portata di orecchio e presumibilmente in stato
di allarme è già il paradiso” (cit. “giorni Felici” ,ndA).
Il Willie di Roberto De Francesco è un piccolo capolavoro di degrado maschile.
Se ne vede il volto solo dopo parecchi minuti che è in scena, ma lui riesce
ugualmente ad enfatizzare i limiti del suo personaggio, malato, afasico,
borbottante, abbigliato poco dignitosamente, esatto contrario della moglie.
L’umanità terra terra, un po’ triviale un po’ assente, senza opinioni, senza
domande e perciò indifferente a qualsiasi possibilità di risposta, è tutta
espressa nell’atto dello strisciare. Willie può muoversi, e sceglie di non
parlare. Assieme a Winnie che è il suo speculare, raggiunge e completa
l’archetipo di un’umanità sconfitta, che tenta la sopravvivenza. Distanti, li
unisce ad un certo punto una risata: ma il dubbio che non stiano ridendo della
stessa cosa coglie Winnie, ed è una nuova misura del loro distacco.
Sarà la posizione, sarà l’indiscussa bravura, ma Roberto De Francesco-Willie “in
orizzontale” è davvero tutt’altra persona rispetto al cordiale attore incontrato
informalmente dopo, fuori dal camerino. A partire dalla statura.
E così Nicoletta Braschi. Quando esce dalla macchina teatrale resto basita:
siamo nell’atelier di Capote, altro che nella desertificazione beckettiana!
Neppure la tremenda parrucca bionda da cameriera di hotel riesce ad
involgarirla! E’ abbigliata come una reginetta, bustino con spalline di strass e
fiocco sul seno, gonna a campana di un impalpabile color luminoso (indefinibile,
tra cipria e panna), con decolté tacco 12. Da notare che la Braschi ha recitato
a mezzobusto, avrebbe potuto indossare anche una calzamaglia e ballerine,
nessuno l’avrebbe vista. E invece…!
Qui, dalle nostre parti, abbiamo intere generazioni ossessionate dalla Bellezza,
che vorremmo Grande. Uno spicchio di questa abita in questi giorni al Teatro
Civico.