“Titanic- The end”, Neiwiller rivive al Teatro Civico 14 attraverso Cantalupo
Caserta – 30 Novembre 2013
Articolo di Tonia Cestari
Una sorpresa fin dall'inizio. Pochi minuti dall'ingresso in sala e ci si
accorge di essere di fronte a qualcosa di diverso e surreale. La nebbia
fittissima, un lampadario appeso al centro della scena, un telo arancione steso
sulle sagome degli attori immobili.
Già in scena dall’8 al 17 Novembre alla Sala Assoli del Teatro Nuovo di Napoli e
al Teatro Antonio Ghirelli di Salerno, dopo le serate del 29 e il 30 Novembre,
stasera, 1 Dicembre al Teatro Civico 14 di Caserta, prosegue la tournée di
“Titanic-The end” nella sua ultima data in programma.
Salvatore Cantalupo riporta sotto i riflettori lo spettacolo che debuttò
nell’Aprile del 1984 a Napoli al Teatro Nuovo per la regia di Antonio Neiwiller,
dopo aver gestito un laboratorio teatrale durato nove mesi, metodologia di
lavoro che lo stesso Cantalupo ha poi adottato per essere fedele al suo maestro
non solo registicamente ma anche metodologicamente. Durante il periodo
laboratoriale, Neiwiller era fortemente influenzato dalla “Classe morta” di
Tadeusz Kantor e anche nel riallestimento di Cantalupo ne viene mantenuto il
riferimento.
Il primo regista morì a 45 anni il 9 novembre 1993 e nel ventennale della sua
scomparsa, Cantalupo ha ben pensato di rendergli omaggio riallestendo lo
spettacolo con la compagnia di attori di Teatri Uniti in collaborazione con
Accademia Amiata Mutamenti.
Uno spettacolo che ha bisogno di essere esplorato attraverso l'immaginazione del
singolo spettatore, non di immediata comprensione, va goduto per quello che è,
lasciando all'inconscio il compito di assimilarne il vero significato. Senza
parole e con i soli movimenti del corpo, induce a riflettere sul senso della
vita, sulla modernità caotica e schiava del progresso. Le emissioni vocali
incomprensibili, sottoforma di "grammelot" sono il chiaro riferimento
all'incomunicabilità della società contemporanea. Eppure verrebbe da scrivere
cose insensate per raccontarlo: la rappresentazione teatrale non aveva bisogno
di parole e trovarle per riportare quello che ha trasmesso al suo pubblico è un
atto forzato.
"Titanic - The end" è dunque una metafora, uno spettacolo liberamente tratto dal
libro “La fine del Titanic” di Hans Magnus Enzensberger, il cui titolo rimanda
alla nave come simbolo del progresso che "affonda" nonostante le comodità che
comporta e che ha portato inevitabilmente al naufragio della ragione.
In scena Salvatore Cantalupo stesso, nei panni del "capitano della nave", con
Carmine Ferrara, Massimo Finelli, Amelia Longobardi, Ambra Marcozzi, Claudia
Sacco, Sonia Totaro, Chiara Vitiello, tutti padroni dello spazio scenico, pronti
a rotolare, saltare, strisciare, interagire come una squadra o ad isolarsi dal
resto e agendo per conto proprio. Uno dei temi principali dello spettacolo è
proprio la contrapposizione tra il singolo e la società; ognuno dei personaggi è
spinto a comportarsi secondo le convenzioni solo quando è parte del gruppo
sociale: insieme seguono un corteo funebre, giocano a rugby o brindano attorno a
una bottiglia di vino scambiandosi sorrisi di circostanza e solo quando riescono
ad isolarsi rispetto agli altri si abbandonano a risate isteriche, danze
contorte e si dedicano in solitudine ad attività a noi familiari in quanto
tratte dal quotidiano, ma completamente decontestualizzate. Le azioni quotidiane
sono scollate dalla realtà e poste in un'atmosfera surreale senza tempo né
spazio.
Una scenografia minimalista ed essenziale mostra solo un baule sul fondo,
illuminato da lampadine appese, un ambiente spoglio in contrapposizione alla
varietà degli oggetti di scena di cui i personaggi si appropriano per dare sfogo
ai propri desideri o, per meglio dire, giustificare la loro presenza in scena:
un secchio per lavarsi, un compasso “artigianale” per delimitare il proprio
spazio, vestiti per cambiarsi, sedie per sedersi, valigie per partire. Tutte
azioni fini a se stesse legate ai più impensabili oggetti in scena, relitti a
cui appoggiarsi per non naufragare. I personaggi parlano, si ascoltano si
rispondono tra loro ma ciò che parla sono i gesti e i toni, non certo le parole,
del tutto assenti e sostituite da suoni incomprensibili, un linguaggio forse
improvvisato ma comunque perfetto, come perfetti sono gli incastri scenici. I
tubi di plastica inseriti tra luogo scenico e platea sono una delle trovate più
sorprendenti mai viste a teatro: un semplice tubo diventa mezzo di
“comunicazione” tra i personaggi, il comandante e gli spettatori.
Infine tutti gli attori dietro a un telo, attendono insieme al pubblico, “la
fine”, la stessa che sin dall'inizio è parte della rappresentazione. Il capitano
(Cantalupo) si aggira attorno alla fila di personaggi immobili e con una torcia
disegna le loro ombre riflesse sul telo bianco, recitando una sorta di morale
sempre in grammelot, che nessuno può comprendere dal punto di vista linguistico,
ma l'attimo di calma successivo al caos che ha dominato la scena fino a quel
momento, distende l'inconscio e il messaggio arriva inevitabilmente, ma resta
soggettivo e relativo all'immaginazione di ciascuno spettatore.
Chi non aveva minimamente idea di cosa avrebbe visto è rimasto spiazzato, ma
soprattutto divertito. Un gruppo di attori in continua metamorfosi, un
kaleidoscopio della nostra società in cui ognuno di noi potrebbe rispecchiarsi,
e più li si considera folli più li si invidia. Uno spettacolo che trasmette la
voglia di comportarsi in quel modo una volta usciti dal teatro. I personaggi
sono entità istintive, esseri primitivi e senza regole, mangiano in scena, si
cambiano d'abito, danzano ridono e urlano istericamente. Solo il suono
ricorrente di una trombetta richiamava gli attori all'ordine e lì, insieme a
loro, ci si sentiva soffocare: perchè fermarli?