"Aldo Morto. Tragedia" di Daniele Timpano al Teatro Civico 14
Caserta, 2 Febbraio 2013
Articolo di Giuseppe Vuolo
C'è un tipo che arriva trafelato, imbarazzato davanti al pubblico, con l'aria
di chi debba per forza raccontare un fatto a un altro senza averne la minima
voglia perché ha paura di annoiarlo - anzi, ne ha la certezza - e con un sorriso
timoroso comincia:
<<Vabbé, niente d'importante... Aldo Moro esce di casa, è un politico, ha la
scorta, macchina blu macchina bianca una dietro l'altra, 9 del mattino Roma 16
Marzo '78. Via Fani. Una macchina si ferma davanti allo stop bloccando la strada
a tutti quanti. Brigate Rosse. Pa-pa-pa-pa-pa bang-bang, cinque morti, scorta
morta, marmellata di sangue su Via Fani, "Buongiorno Presidente", lo infilano in
macchina e lo portano via, sangue, sangue per terra, sangue dappertutto. Cose
che capitavano, negli anni Settanta.>>
Inizia così il monologo "Aldo Morto. Tragedia", opera dell'ingegnoso e ironico
Daniele Timpano. Diciamo subito che è uno spettacolo complesso, fatto di momenti
cerebrali e di trovate naif, un percorso nelle verità scomode depositate sul
fondo della coscienza collettiva, proprio accanto a quella sensazione di
irrisolto e di senso di colpa che il nostro Paese si porta dentro da più di
trent'anni, più o meno consapevolmente.
Attenzione, però: questo lavoro non è un altro tassello che va ad aggiungersi al
mare magnum di opere di denuncia sociale sullo stesso argomento, non è
un'inchiesta di Peppe D'Avanzo o "La notte della Repubblica" di Zavoli o un
programma di Minoli, non svela chissà quali retroscena nascosti tra le pieghe
delle correnti democristiane, della massoneria, dei servizi segreti o di altri
soggetti politici della Prima Repubblica. Insomma, non è teatro di denuncia; o,
almeno, non con l'evidenza di un Marco Paolini. "Aldo Morto" vuole essere in
effetti un'introspezione psicologica della società civile dell'epoca, vuole (più
che analizzare) mettere in mostra i contrastanti pensieri della generazione che
ha vissuto in prima persona il 1978; in questo senso protagonista non è Aldo
Moro, ma tutti gli altri.
E infatti il suo autore si fa letteralmente in quattro per portare in scena un
vero groviglio di personaggi (un immaginario figlio di Moro, la brigatista
Adriana Faranda, Renato Curcio "l'Eros Ramazzotti della lotta armata", un
maldestro cronista sulla scena del delitto, lo stesso Moro rinchiuso nella sua
cella), in mezzo al quale l'attore romano trova il tempo per interpretare anche
se stesso, che all'epoca dei fatti aveva 4 anni, prendendo le parti di chi, come
lui, per motivi anagrafici ha avuto della lotta armata un'esperienza di seconda
mano, ricostruita attraverso libri, film, documentari, canzoni. Una conoscenza
segnata, a seconda dei casi, dall'ideologia, dal pietismo, dalla commemorazione
gonfia di retorica.
Ecco, la retorica. Benché il titolo parli di "Tragedia", lo spettatore scopre l'inganno: Timpano rifugge programmaticamente - e deride - ogni enfatica drammatizzazione dell'argomento, adottando toni ironici e autoironici, concedendo spesso la risata al pubblico con quel suo fare buffo e schizofrenico. Con apparente irriverenza verso il cadavere di Moro e gli spettatori, se ne frega di urtare la sensibilità (e il perbenismo) altrui: fa nomi e cognomi senza remore, intona truculente canzoni di protesta, si lamenta del fatto che le BR avrebbero dovuto uccidere anche Enzo Biagi. Il pubblico si sente sempre in bilico ta la risata liberatoria e l'indignazione, incerto se attribuire la battuta all'attore o ad uno dei suoi numerosi personaggi. Più che da un malinteso gusto della provocazione, Daniele Timpano è animato dalla volontà di rappresentare fedelmente la generazione della lotta armata; di dare voce a sentimenti diffusi, provati anche da chi, alla fine, ha attraversato quegli anni senza imbracciare un kalashnikov (e non lo ammetterà mai).
Con quest'opera l'autore chiude la sua personale trilogia con "Dux in scatola" (2006) e "Risorgimento Pop" (2009), raccontando, dopo Mussolini e Mazzini, di un altro cadavere eccellente del nostro Paese; ancora una volta disseppellisce la Storia per metterla in scena senza filtri, stavolta chiedendo allo spettatore se il ricorso alla violenza sia stato giustificato negli Anni di piombo e facendoci chiedere se in qualche modo sia giustificabile oggi (tema quantomai attuale). E a fine spettacolo viene spontaneo chiedersi anche come fosse possibile tutta quella assuefazione al terrore, come facesse un assassino a portare in giro un cadavere in una Renault 4 ascoltando tranquillamente "Stayin'alive". "Cose che capitavano, negli anni Settanta".