Teatro Civico 14: Rivoluzione d’amore di M. Lucente
Caserta – 25 Gennaio 2013
Articolo di Rossella Barsali
Napoli 1647- “Il popolo napoletano è fatto per tenere alta la testa.”
Vorrei che l’incipit fosse inteso come una sineddoche: è il popolo italiano
che (io con voi spero) è fatto per tenere alta la testa. A chi conosce, apprezza
e segue il Teatro Civico 14 non può essere sfuggita la poderosa impronta di
“denuncia” sociale impressa dal team di Solofria nella scelta della Stagione
Teatrale 2012-2013.
I Venerdì di Sciapò confermano il messaggio, anche nella scelta trasversale (che
poi tanto trasversale non è!) di parlare d’Amore a Napoli ai tempi degli
Spagnoli e della Rivoluzione.
1647, anno della morte di Tommaso Ajello, detto Masaniello, il capopopolo che ha
sete di libertà. Quell’arsura è il perno sul quale ruota tutto lo spettacolo di
Solofria, tratto dal libretto omonimo di Marilena Lucente, attraverso la tenacia
d’amore che di sete inestinguibile è origine e fine: Bernardina Pisa, la
giovanissima moglie e vedova di Masaniello riempie la scena scarna di
scenografia, muta e buia.
Napoli c’è, nel vernacolo teneramente sguaiato e dolce della voce di Bernardina;
ma è la sua unica eco, nessun altro suono, nessun rumore, né una cantilena in
lontananza evocano i clamori che sono spezia essenziale della città.
Nell’accorato monologo di Bernardina si affollano ricordi, rimproveri,
confidenze, suppliche, richiami di un’epoca, di un mondo sopraffatto dall’odio,
dalla violenza, dal sopruso e dall’inganno. Ma trascinato dall’Amore: per la
Libertà, per la Vita, per l’amore stesso.
Illuminata dalla luce di candele, che ella stessa accende e spegne con le dita
umide di saliva (un gesto antico, forte), Ilaria Delli Paoli è Bernardina, anzi
è la Rivoluzione d’Amore. Campeggia al centro della scena un’enorme croce di
ferro, con una grata al centro: anche quando lei, che da sola in scena sorregge
tutto lo spettacolo, ci passa davanti, la croce resta il suo simbolo, e la grata
il carcere dove viene confinata. A testa alta.
Il sapiente gioco di luci delle candele restituisce allo spettatore
l’espressività gestuale profonda e dolente della Delli Paoli, assieme ad una
sensualità straziata, che riverbera filtrata dal suo interlocutore muto, il suo
unico interlocutore:
“E tu? Di chi eri tu? Eri del popolo?
Ed io? ERO DEL POPOLO? Tu 'o ssaie cosa significa dire "mio" a caccheruno a
chisto munno?
MIO.
M' vene 'o friddo 'n cuollo.
Quando uno dice "chisto è o' mio" s'adda mettere paura. E' una cosa grande
assaje. Nu' si cchiù padrona 'e te, si rice a 'n ato "tu sì dd'o mmio".
Mio.
Eri mio, tu? Ci hai pensato mai? A che cos'è per una donna stare appresso a uno
che è di tutti quanti?”
Stravolgere il senso di appartenenza, trasformalo da privato a pubblico,
interpretare la passione suscitata dall’ardore di Masaniello come mero atto
politico (“haje fatt fare la rivoluzione alle femmine”), ed infine assimilare a
tal punto l’essere “di tutti” da diventarlo, pubblicamente. Il monologo finale
della Bernardina “donna pubblica” ma sempre e solo di Masaniello, per un
perverso gioco di prospettiva ottica, mi impedisce la visione del volto di lei,
e, dal mio posto di spettatrice, ne ascolto solo le frasi atroci. Forse, accade
proprio così, quando si diventa “pubblici”: resta solo il messaggio, si perde la
corporeità.