Teatro Caserta Città di Pace: Ascanio Celestini in “Il razzismo è una brutta storia”
Caserta – 10 Dicembre 2010
Articolo e foto di di Valentina Sanseverino
Il teatro è ancora deserto quando arrivo: mi avvicino ad un rumore sul palco
e, dietro casse e fili, scorgo un ragazzino esile. Mi sente arrivare e si volta
e mi accorgo che quel ragazzino è in realtà un uomo, tutto pizzetto e occhi blu:
è Ascanio Celestini che in camerino come le star proprio non ci sa stare e
quando gli chiedo un intervista inizia a parlare e non si ferma più finché, alle
20.55 gli ricordo che in 5 minuti deve essere in scena. Quest'uomo incredibile,
questo comunicatore inarrestabile, questo autore, regista e attore teatrale,
questo scrittore e sceneggiatore, questo musicista e “comico” tv, questo regista
e attore cinematografico sembra sia nato apposta per narrare e lasciarti a bocca
aperta perché ti ritrovi a ridere quando tratta argomenti serissimi e a
riflettere quando il discorso ti sembra invece così leggero..
Poi, quando sale sul palco, non da tregua: i monologhi incalzanti lasciano lo
spettatore stesso senza fiato per circa un ora e mezza in cui Celestini fa
pendere letteralmente un teatro tutto esaurito dalle sue labbra inarrestabili.
Accompagnato solo dalla discreta chitarra di Matteo D'Agostino, Ascanio dipinge
in 10 racconti esilaranti e un po' surreali un paese malato di razzismo fino al
midollo. “Sono uscito dal teatro e mi sentivo una merda” mi ha detto un amico
perché questo spettacolo, ideato dall'Arci e coraggiosamente ospitato dal Teatro
Caserta Città di Pace, è un pugno in piena faccia anche per chi razzista non si
è mai sentito nemmeno un po'. Ma tra involontaria ironia e malcelata cattiveria,
tra frasi ripetute, scattose e paradossali, attimi di commozione e uscite
esilaranti emerge, a poco a poco, l'intento stesso della rappresentazione:
scavarsi dentro per dare alla luce quegli atteggiamenti in fondo in fondo un po'
razzisti, quei pregiudizi che il buon senso ci fa spingere sempre più in fondo
nelle viscere dell'anima, quella paura del diverso che ti porta a posizionarlo
giusto un gradino sotto di te trasformando “l'italiano brava gente” in un essere
intollerante che se la prende con il clandestino, con l'omosessuale, con la
donna violentata che però un po' se la va a cercare perché gira di notte in
minigonna, con chi ha l'unica colpa di essere più povero di te. E' dunque senza
scampo questa umanità malata, tutta ordinata in fila indiana, più simile a
oggetti che a esseri umani, per cui l'Africa è solo un bel giardino che però
dopo un po' stanca? Forse l'appiglio è questa dolorosa e un po' autolesionistica
analisi interiore, accompagnata dal sollievo dolceamaro dell'ironia..
Casertamusica ha incontrato Ascanio Celestini per voi dietro le quinte del delizioso Teatro Caserta Città di Pace di Puccianiello per un'intervista semiseria in vista del suo ultimo spettacolo, nato dalla collaborazione con l'Arci, “Il razzismo è una brutta storia”.
Valentina Sanceverino: Ascanio ricordi il giorno in cui hai incontrato
per la prima volta il teatro?
Ascanio Celestini: Ero all'università e un'amica mia un giorno mi disse
“Già che fai lettere che non ti serve a niente perché non segui qualche corso di
antropologia che ha più senso?”. In quel periodo la mia passione era il cinema,
ci andavo sempre: il teatro invece non mi interessava. All'università però c'era
questo piccolo teatro, l'Ateneo, dove passavano spettacoli un po' differenti da
quello che rassomiglia al pregiudizio che tutti noi abbiamo quando pensiamo al
teatro: e in questo piccolo spazio ho visto per la prima volta Il Teatro delle
Briciole, gli spettacoli del Teatro Settimo, poi ovviamente Paolini, Laura
Polino, Eugenio Allegri, Enzo Moscato. Un giorno un amico con cui seguivo Storia
del Cinema mi chiese di accompagnarlo ad un laboratorio teatrale “Teatro? No, ma
perché?” dissi io, poi mi convinse dicendomi che era l'unica cosa che potevamo
fare senza dover prima sostenere un provino e andai, ma così per curiosità. Le
prove si facevano in una vecchia sede del Pc ma non c'era nulla di politico, è
che non avevamo nessun altro posto dove andare! L'insegnante poi ci diceva
chiaramente che era un fesseria “L'importante è studiare, prendersi la
laurea..”.
E invece fu una botta di fortuna perché tutti quelli che erano lì ci credevano
molto e quasi tutti oggi fanno teatro, come Veronica Cruciani e Tiziana Scrocca.
Feci qualche piccolo saggio e da subito pensai che la cosa mi interessava molto,
ma all'inizio solo per un discorso legato all'antropologia, che mi aveva
appassionato: mi sembrava che il lavoro di ricerca sul campo, l'accumulo di
materiale orale, che sono alla base dello studio antropologico, fossero
direttamente collegati con l'oralità propria del teatro. Col tempo poi mi
accorsi di non poter fare più a meno del teatro e basta.
Un teatro, il tuo, che si avvicina fin da subito alle tematiche sociali, agli
esclusi..Quanto c'è di Pasolini nel tuo lavoro?
Uno dei primi spettacoli che feci a livello professionale era “Cicoria”, con
Gaetano Ventriglia: avevamo lavorato su alcuni diari di Pasolini sulla
lavorazione dei suoi film, in particolare “Accattone” e su alcune immagini
ricorrenti sopratutto nei film ma anche nella poesia. La cosa che ci interessava
maggiormente era l'idea di una sorta di “sofferenza senza redenzione e passione
senza resurrezione”. Detta così sembra molto complessa, in realtà ci interessava
semplicemente Cristo, moltissimo come uomo, molto poco come Dio.
V. S.: Ricordati che siamo in Chiesa..
A. C.: Eh lo so, lo so..E che ci vuoi fare, nessuno è perfetto! Ecco ci
interessava proprio il Cristo che non risorge, il Cristo che soffre e basta: in
realtà è molto meno drammatico di come possa sembrare! Lo spettacolo, per certi
versi, era leggero e perfino un po' naif: raccontava di un padre, morto, che
aiutava il figlio a morire e l'idea della mancanza di un aldilà alleggeriva il
discorso – ameno per me che non sono credente o meglio, come diceva mio padre
che non era un filosofo ma un artigiano, “Io credo, ma credo che non c'è niente!
Mica è colpa mia se non esiste, se esisteva ci credevo!” - dava l'idea di una
vita che acquista senso proprio perché non ce n'è un'altra a disposizione.
V. S.: E poi è arrivato il Teatro di Narrazione, come viene definito
da chi tenta – invano – di etichettarti. Che poi consiste in te, solo, su un
palco vuoto, che fai ridere trattando argomenti serissimi..Come ci si riesce?
A. C.: E che ne so! Quando rileggo le cose che scrivo mi sembrano così
cattive! Non che mi venga da dire allo spettatore “Ma che c...te ridi?” No, non
è questo, io non ho niente contro la risata, anzi..e che io penso, più che alla
comicità in se, all'ironia intesa nel suo significato etimologico di “ironikos”.
“Ironikos” è il filosofo che si pone al di sotto del suo interlocutore solo per
amore della dialettica; l' “ironikos” travestito da ignorante, poi, diventa
addirittura comico: è da li che deriva il riso, non da certi comici che fanno la
parte di quelli che sanno tutto, a Roma li chiamiamo “sgamati”. Sono quelli che
cercano di infilarsi a forza sotto le ascelle dello spettatore per farlo ridere.
Io, personalmente, non scrivo mai qualcosa pensando che possa far ridere, ma
quando lo metto in scena poi accade. Un tipo l'altro giorno mi ha detto “Ma tu
sei quel comico della tv..” Io ho risposto “Si” - io rispondo sempre si a tutto,
pure se mi chiedono “Ma tu sei quella ballerina..” - e lui mi fa “Ma lo sai che
nun me' fai' ride'?” E io “Forse perché non sono un comico?”. La cosa più
importante per me non è suscitare la risata ma raccontare una storia: e questo
ci riporta al Teatro di narrazione. Quando abbiamo iniziato, a partire dagli
anni '90 – su wikipedia ci chiamano “la seconda generazione” - l'idea era quelle
di passsare dal teatro per ragazzi ad un teatro sociale, di farlo magari per
strada dove un teatro non c'è, di farlo con un forte impegno politico. Tutto
questo è Teatro di narrazione? Non lo so..è una cosa molto “da giornalista”
definirlo così..senza offesa eh?
V. S.: Figurati..mica l' ho detto io. Qual'è l'incontro che ti ha
cambiato al vita?
A. C.: Ce ne sono stati molti: mi viene in mente Alessandro Portelli,
grande studioso di storia orale la cui lettura di “L'ordine è già stato
eseguito” da cui ho tratto “Radio Clandestina” è stato fondamentale per il mio
lavoro. E poi Alessandra Marini che con le sue ricerche sul campo e la sua
personalissima reinterpretazione di racconti e musica della tradizione popolare
mi ha insegnato che talvolta la libera interpretazione di materiali raccolti può
risultare più rispettosa della riproduzione più fedele.
V. S.: Passiamo allo spettacolo di stasera, come nasce e da dove è
scaturita la collaborazione con l'Arci?
A. C.: Semplicemente mi hanno chiamato e mi hanno chiesto di fare uno
spettacolo per loro. Io ho preso tempo – prendo sempre tempo in tutto, con
chiunque – e gli ho spiegato che io impiego anni a scrivere uno spettacolo, ma
per fortuna io scrivo tanto, tantissimo e tutti i miei racconti o parti di esse
entrano negli spettacoli per caso, poi ne escono perché alla rappresentazione
successiva dimentico che parte ho inserito e dove..In una versione di questo
spettacolo c'era un racconto che ogni volta che lo inserivo finiva in maniera
diversa: a volte finiva proprio in maniera disastrosa.
La prima volta che ho portato in scena uno spettacolo da solo, “Baccalà”, non
avevo ancora scritto il finale. Mi chiamarono per ingaggiarmi e io dissi “Ma non
ho uno spettacolo completo!” E loro mi dissero “Va bè, vieni uguale”. Andai e mi
pagarono un po' di meno.
Per questo spettacolo in particolare poi, abbiamo deciso di raccogliere
materiale da racconti già scritti, alcuni dei quali sono già apparsi anche in
tv. Molti erano appunti sparsi, scritti di getto e senza maiuscole né andare a
capo; molti li ho scritti in viaggio: ogni 150 km produco 5-6 minuti di
racconto.
V. S.:Da questi racconti emerge un paese razzista?
A. C.: In questo paese siamo tutti razzisti. Il problema non è che loro
sono di colore – perché noi che siamo? senza colore? - perché se così fosse
l'odio nascerebbe anche prima che gli immigrati vengano qui. E non è neppure il
fatto che siano clandestini: il problema è che sono poveri! E' un conflitto di
classe ed è lo stesso che si scatenò da parte del nord verso il sud Italia. E'
la percezione dell'altro come diverso e il posizionamento del diverso da me come
automaticamente inferiore: è una questione di lotta di classe. Solo che se tu
parli oggi di lotta di classe ti prendono per scemo “Ma che sei mio nonno? Stai
ancora a parlare di lotta di classe?”. E invece ne dovremmo parlare ancora.
Consulta: Eventi
teatrali 2010/11