Il 25 aprile e dintorni

Articolo e foto di Lorenzo Di Donato


Il 25 aprile, festa nazionale dedicata alla commemorazione della liberazione d’Italia dai tedeschi e dagli italiani che avevano aderito alla Repubblica di Salò, porta il mio pensiero allo stesso giorno del 1945 in cui io, alunno della scuola media “L. Vanvitelli” ospitata in Palazzo Vecchio, e l’intera mia classe e tutte le classi della scuola furono distratte dalle lezioni per il vociare, prima, e per le grida festanti inneggianti alla fine della guerra, poi, che salivano dalla piazza Vanvitelli invasa da una folla sempre più numerosa e festante. (vedi Il mio 25 aprile 1945).
Al 25 aprile è associata, nella mia memoria, anche un’altra esperienza vissuta dopo qualche mese proprio per effetto della fine della guerra in Italia. Chissà quanti altri italiani hanno condiviso questa mia esperienza e la ricordano, come me, come se fosse accaduta da poco tempo.
Era il pomeriggio di un assolato luglio 1945 quando fu bussato alla nostra porta. La mia sorellina corse ad aprire e tornò da noi per riferire, molto perplessa, che fuori della porta c’era un soldato americano che voleva zio Emilio. Emilio era nostro padre ed era chiamato abitualmente zio Emilio non solo da una folta schiera di nipoti di vario grado e anche di conoscenti ed amici del suo paese natio. Ma nessun americano si era rivolto a mio padre con l’appellativo familiare “zio Emilio”.
Perciò, sorpresi ed incuriositi, con papà corremmo alla porta dove trovammo un giovane che indossava un vestito analogo a quello dei soldati americani che però aveva impresso sul petto, sulle spalle, sul berretto e sulla sacca da viaggio due vistose P W, iniziali della scritta “Prisoner of war”: prigioniero di guerra. Rimanemmo un istante fermi a scrutarlo, ma lui si avvinghiò a mio padre coprendolo di baci ricambiato da nostro padre in lacrime e balbettante: ”Filiberto, Filiberto mio”. Finalmente comprendemmo che l’inatteso ospite era nostro cugino Filiberto, che ritornava finalmente in Italia dopo un lungo periodo di prigionia. Così anche noi ragazzi, ne eravamo ben sei!, ci unimmo festosi nell’abbraccio, già tempestando Filiberto di domande, mentre la mamma, al sentire quel po pò di trambusto, aveva lasciato di governare in cucina ed era anch’essa accorsa all’ingresso.
Calmatici un poco tutti, portammo Filiberto in sala da pranzo dove la mamma, informatasi che era digiuno, gli preparò subito uno spaghetto ed una tazza di caffè. Così potemmo, finalmente, sottoporre Filiberto ad un interrogatorio di terzo grado quale manco Ulisse avrebbe mai avuto se avesse potuto palesarsi a Penelope al suo rientro ad Itaca.
Filiberto era stato fatto prigioniero ad El Alamein e portato in un campo di concentramento prima in Egitto, poi in Sudan e quindi, fortunatamente per lui, negli USA, dove il trattamento fu finalmente migliore, forse anche perché allora gli italiani avevano firmato l’armistizio con gli americani. Egli, poiché aveva studiato il tedesco nella scuola superiore, fu messo in un ufficio che gestiva i prigionieri tedeschi. Solo dopo la liberazione dell’Italia circolò la voce di un suo rimpatrio, perché avendo lui, come altri, sulle maniche della sua divisa da sottotenente di complemento la mostrina con segnata la sigla U.V., era ritenuto un aderente al Partita Fascista e quindi da tenere sotto sorveglianza. E ciò non era vero per tutti perché la sigla U.V. , formata dalle iniziali della denominazione Universitario Volontario, era stata affibbiata a tutti gli universitari sotto le armi, sia volontari che chiamati alle armi. Filiberto era così stato anch’egli liberato, infine, e trasportato a Napoli con un piroscafo stracolmo di ex prigionieri italiani.
Intanto il tempo passavano e Filiberto, pur rispondendo alle nostre domande, dava segni di inquietudine. Quando mio padre lo sollecitò a lasciarci e raggiungere i suoi familiari al suo paese natale, Filiberto con un filo di voce e con gli occhi lucidi disse:”Zi’ Emilio, vi debbo parlare un attimo”. Papà così si appartò da noi con Filiberto in un’altra stanza. Dopo una diecina di minuti, i due ne uscirono sorridendo. Filiberto ci salutò rapidamente, ma gioiosamente, e se ne andò a prendere il treno per il suo paese.
Solo alcuni anni dopo, quando papà ci ritenne sufficientemente “grandi” da poter parlare con noi di argomenti “per adulti”, ci confidò il contenuto di quel breve colloquio con Filiberto.
I primi prigionieri liberati dal suo campo avevano scritto, dopo il loro rientro, del cambiamento avvenuto nella loro città o paese e anche delle miserie umane che la guerra, i soldati “liberatori” e la fame aveva portato. Così si era generata nei prigionieri di guerra rimasti nel campo di prigionia, ed in lui, di trovare al ritorno in Italia questo cambiamento anche nelle loro famiglie. Questo sentimento era tanto forte e diffuso anche in Italia da ispirare i versi “Chistu core me se schianta/quanno sento ‘e dì d’ ‘a ggente/ ca s’è fatto malamente / ‘stu paese … ma pecché? /No…nun è overo! No…nun ce crero/ e more pe’ ‘sta smania ‘e turnà a Napule…/ma ch’aggia fa’…me fa paura ‘e ‘ce turnà!” della famosa canzone napoletana “Munasterio ‘e Santa Chiara” edita proprio del 1945.
E questa paura si era rafforzata in Filiberto nel vedere, appena dopo lo sbarco dal piroscafo, la prostituzione dilagante sia intorno al porto che nei dintorni della stazione Centrale di Napoli. Le amare sensazioni riportate lo avevano stravolto tanto da immaginare che anche le sue tre sorelle potevano essere rimaste travolte dal vortice della guerra. E confessò a mio padre che per questo egli aveva la “smania ‘e turnà” al suo paese, ma aveva tanta “paura ‘e ‘ce turnà”. Papà lo aveva subito rassicurato della conservata serietà delle sorelle e Filiberto, alfine rinfrancato, se ne era tornato a casa.
Tanti altri reduci dalla guerra non ebbero la stessa fortuna di Filiberto: salvarono la pelle, ma trovarono la famiglia lacerata o distrutta, e per ricostituirla, quando potettero o ne furono capaci, dovettero aspettare che la bufera passasse: “Ha da passà a nuttata” dovettero dolorosamente dirsi più e più volte.
 

Il Principe Umberto a Palermo (1942)

 

Nostri aviatori al campo d’aviazione a Settebagni (1935)

 

Nostri ufficiali e sottufficiali con una nuova mitraglietta

 

Nostri soldati sulla nave diretta in Africa (19 luglio 1942)

 

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