Recensione di "La prova del cuoco: il genio di Vatel"
Caserta e provincia, dicembre 2009 a gennaio 2010
Articolo di Giuseppe Vuolo
Maddaloni, 21 Dicembre. Diciamolo subito: il primo intento de “I
magnifici sette”, il suo scopo principale, è decisamente raggiunto:
“riscoprire il meraviglioso di Terra di Lavoro”, come recita il sottotitolo
della rassegna di Nunzio Areni. Appena entrati nella “location” (come
sciaguratamente l’ha chiamata un’autorità del luogo) non si può fare a meno
di pensare: “Ma quant’è bella la Chiesa di Santa Margherita!”. Ed è proprio
questo il pensiero che rimane in mente uscendone una volta terminato lo
spettacolo, come il sapore di un cibo che ci ha colpito, magari
risvegliandoci ricordi lontani.
È tutto giocato sul senso del gusto “La prova del cuoco: il genio di Vatel”,
monologo ispirato alla storia vera di François Vatel, uno degli chef
francesi più famosi della storia, maniacale perfezionista, ricordato, in
particolare, per aver ideato la crema chantilly. Prima di cominciare, il
Sindaco di Maddaloni, Michele Farina, giustamente mette in risalto la scelta
degli organizzatori di valorizzare siti non soliti a concerti e spettacoli,
per guardare con occhi diversi quello che la routine quotidiana fa
colpevolmente apparire comune o, peggio, decrepito. A seguire, una rapida
introduzione dell’autore Angelo Callipo, che tra l’altro è anche professore
al Liceo Classico “G. Bruno” della stessa città. Ringraziamenti preventivi a
Don Bruno, generoso padrone di casa.
Luce gialla soffusa, caratteristico brusio d’incoraggiamento ed ecco
finalmente entrare l’Orchestra Collegium Philarmonicum, diretta dal Maestro
Gennaro Cappabianca.
Le sonate barocche accompagnano l’intera serata, apparendo per la verità un
po’ troppo ripetitive. Passa un quarto d’ora buono per ascoltare le prime
parole di Monsieur Vatel (“Ci sono tanti modi di passare alla storia”), ma
questa e altre attese, s’intuisce, incanalano efficacemente l’attenzione del
pubblico sul recitato. Un espediente semplice semplice per gustarsi meglio
lo spettacolo. La semplicità sembra essere il segreto sia della
rappresentazione (di breve durata, scenicamente essenziale: un leggio per la
voce narrante, nessun costume, nessuno sfondo) sia della buona cucina
secondo Vatel: non troppi ingredienti, non troppo pochi, niente di
artefatto, solo candidi, innocenti ingredienti di tutti i giorni, proprio
come la panna e lo zucchero nella crema chantilly.
Giulio Scarpati, unico interprete, prende la maggior parte degli applausi;
nulla da togliere alla qualità dei musicisti, anzi, ma chi appare in
televisione, al giorno d’oggi, è come se fosse uno di famiglia. Il Lele
Martini di “Un medico in famiglia” è però un personaggio molto lontano dal
François Vatel di stasera, e anche per questo una parte del pubblico,
talvolta, è parso disorientato e non in grado di seguirlo nelle pieghe dei
suoi discorsi, tutti incentrati sull’ossessiva ricerca della perfezione
culinaria. D’altro canto, chi s’aspettava un’opera “pesante”, pensosa, chi
s’aspettava un personaggio che trovasse risposte a domande universali è
rimasto deluso: il testo non è altro che il discorso di un cuoco troppo
preso dalla sua Arte. Lo si capisce dalla sua concretezza, da come fa
assaporare al pubblico i particolari come ingredienti.
Davanti all’affresco del Cristo Pantocratore Scarpati-Vatel snocciola la sua
esistenza: dall’infanzia passata “dal digiuno allo stomaco vuoto e
viceversa” al lusso dei Castelli e alla ricercatezza dei cibi, il suo
apprezzatissimo talento al servizio prima del Sovrintendente alle Finanze
francese Fouquet e poi del Principe di Condé. Dai 22 anni in poi la sua vita
è un successo dopo l’altro, ma tutto questo non basta alla sua
incontentabile indole. Decide, perciò, di sfruttare al meglio le sue doti in
vista della visita al Principe di Condé di Re Luigi XIV. Incaricato di
organizzare il banchetto, punta al salto di qualità: cucinare alla Corte del
mitico Re Sole, là dove i banchetti “non erano semplici banchetti; erano
piuttosto affari di Stato”. Sarebbe possibile conquistare il Re soltanto
manifestando la propria perfezione, ma qualcosa va storto (per la cronaca:
alcuni arrosti non serviti e un quantitativo di pesce insufficiente per
tutti i commensali), e sebbene questo qualcosa non fosse nemmeno dipeso da
lui, il disonore e la vergogna che prova lo spingono a togliersi la vita.
Narra la leggenda che, nel momento stesso in cui trapassò, cominciò ad
arrivare al Castello tutto il pesce regolarmente ordinato per il banchetto,
il quale, così, si concluse più che degnamente. Questo, il testo di Callipo,
non lo dice, forse per evitare un risata finale troppo amara, oppure per
dare maggior risalto al suo destino tragico, un destino già scritto a causa
del suo tormentato carattere. Questa seconda interpretazione rivelerebbe,
però, la grandezza dello chef nella sua umiltà, la sua convinzione, tanto
umile quanto infondata, di poter passare alla storia soltanto se avesse
fatto parte di quella gloriosa e dorata Corte. In effetti, le ultime parole
che l’autore gli mette in bocca (“Non si sentirà mai più parlare del genio
di François Vatel!”), considerata l’importanza che oggi unanimemente gli
riconosce il mondo dell’arte culinaria, sembrano proprio confermare l’esatto
contrario: che un personaggio così non poteva non passare alla storia.
Consulta: Rassegna "I Magnifici
sette"