Teatro Comunale Parravano: stagione 2021-22
Caserta – dal 29 ottobre 2021
Comunicato stampa
Da lunedì 4
ottobre 2021 prenderà il via la campagna abbonamenti per la stagione 2021/2022
del Teatro Comunale Costantino Parravano di Caserta, che garantirà agli abbonati
della scorsa stagione il diritto di prelazione fino a sabato 23 ottobre. Gli
abbonati dell’ultima stagione, 2019/2020, potranno anche utilizzare al momento
dell’acquisto i voucher emessi per gli spettacoli non goduti causa pandemia, che
saranno detratti dal costo dell’abbonamento.
Da lunedì 25 ottobre spazio ai
nuovi abbonati, che potranno comunque sottoscrivere una lista di prenotazione
già dal 4 ottobre. L’abbonamento è nominativo, non può essere ceduto e il
pubblico potrà accedere in sala esclusivamente munito di green pass. Tutte le
informazioni saranno disponibili al botteghino, al numero 0823444951, che, per
la campagna abbonamenti, sarà aperto dal lunedì al sabato dalle 10.00 alle 13.00
e dalle 17.00 alle 20.00
Grande Teatro
dal 29 al 31 ottobre, Laura Morante in "Io
Sarah, io Tosca" di Laura Morante
e con Chiara Catalano, voce e pianoforte
scene Luigi Ferrigno, costumi Agata Cannizzaro, musiche originali Mimosa
Campironi, luci Tommaso Toscano, regia Daniele Costantini
Sabato 30 ottobre alle ore 18.30, sempre al Teatro
Comunale di Caserta, Laura Morante e Chiara saranno ospite del ciclo di incontri
“Salotto a Teatro”, condotti dalla giornalista Maria Beatrice Crisci.
Poco più di un anno fa Mimosa Campironi mi propose un’opera melologo ispirata a
Sarah Bernhardt e al suo rapporto con Victorien Sardou e con il personaggio di
Tosca, che il drammaturgo aveva scritto per lei.
Si era in piena pandemia, si
diceva che i teatri avrebbero riaperto senza tuttavia la possibilità di riempire
la sala. Ero quindi alla ricerca di un testo per uno spettacolo produttivamente
agile, con non più di due attori sulla scena.
Quella breve lettura lasciava
intravedere una personalità insolita e suggestiva. Avendo vissuto molti anni in
Francia, avevo naturalmente sentito molto parlare di Sarah Bernhardt, adorata da
Oscar Wilde, ammirata da un giovanissimo Sigmund Freud, che le dedica una pagina
del suo diario, prediletta da Victor Hugo, e detestata da Anton Cechov.
Della
Bernhardt si è scritto che era l’ultima attrice del diciannovesimo secolo
(Eleonora Duse veniva invece designata come la prima attrice del secolo scorso),
nell’ambiente del teatro francese si raccontano aneddoti, si citano alcune sue
battute particolarmente caustiche, si parla della sua vocazione assoluta, di
come si fosse ostinata a recitare anche dopo che, all’età di settantuno anni, le
venne amputata una gamba: portata sulla scena su una lettiga dorata, affrontò
perfino un’ultima avventurosa e faticosissima tournée americana.
Ma della
persona che si cela dietro l’apparenza, la storia e la leggenda di quella che fu
forse la prima vera diva, capace di far parlare di sé più o meno quotidianamente
i giornali di mezzo mondo, della donna che fu Sarah Bernhardt non sapevo quasi
nulla. Forse valeva la pena di cominciare a conoscerla.
Ho dunque intrapreso
un lungo percorso, attraverso la vasta mole di libri a lei dedicati, partendo
dalla sua autobiografia, tanto rivelatrice del suo carattere, quanto imprecisa,
sfuggente e lacunosa per quanto riguarda le vicende non sempre edificanti che
hanno contribuito a farne un’attrice e una donna famosissima - osannata e
aspramente criticata, ma costantemente al centro della scena - e soprattutto per
quel che concerne i fatti della sua vita privata e sentimentale - basti pensare
che il figlio Maurice compare per la prima volta nelle memorie della Bernhardt
quando ha ormai quattro anni e che nulla ci viene detto su chi potesse esserne
il padre.
L’indagine doveva dunque continuare: la bella biografia di Arthur
Gold e Robert Fizdale, il libro di Claudette Joannis, quello di Guy Pierrefeux,
fino alla documentazione relativa alla causa per diffamazione che Sarah intentò,
dopo averle devastato la casa, contro la ex collega e ex amica Marie Colombier,
autrice di un best seller dell’epoca che svelava i segreti della Diva.
Più
andavo avanti nella mia esplorazione, più mi convincevo che il confronto fra
Sarah e Tosca, attraverso la dialettica in gran parte misteriosa e inconscia che
sempre si crea fra un personaggio e l’attore che lo interpreta, poteva operare
un progressivo e affascinante disvelamento della personalità di Sarah stessa,
che gelosia, passione, rabbia, devozione, ribellione non appartenevano solo alla
finzione del dramma di Sardou, ma anche alla sua prima magistrale interprete.
Alla fine del percorso, mi è parso di essere finalmente autorizzata a cercare di
raccontare Sarah, la sua personalità straordinariamente complessa e
contraddittoria: cinica e sentimentale, spregiudicata e sognatrice,
superstiziosa e impavida, vulnerabile e battagliera, tanto gelosa della propria
privacy quanto insaziabilmente avida di celebrità, e, soprattutto forse, di
amore.
È nato così questo testo, suddiviso in tre quadri, che sono anche tre
tappe fondamentali del suo rapporto con il personaggio di Tosca: nel primo
quadro è il 3 novembre 1887 e Sarah ha appena cominciato le prove dello
spettacolo, nel secondo sono passate due settimane e le prove sono in corso.
L’ultimo quadro, infine, la rappresenta all’alba del giorno stesso del
contestato ma trionfale debutto del dramma di Sardou, il 24 novembre, al Théatre
de la Porte St. Martin. Laura Morante
“La Tosca” di Victorien Sardou
venne rappresentata per la prima volta il 24 novembre 1887 a Parigi nel Théâtre
de la Porte Saint-Martin. Il dramma era stato scritto da Sardou per la più
importante attrice di quegli anni, la celebre Sarah Bernhardt.
Al terzo
spettacolo insieme, dopo “Fedora” e “Théodora”, l’autore e la grande attrice
erano le due “star” della scena francese. Qualcuno potrebbe chiedersi chi fosse
il regista, la risposta sarebbe che il suo nome non era in locandina.
La
figura del regista, come l’abbiamo conosciuta nel corso del ‘900, ancora non
esisteva. La regia fungeva da anello di congiunzione e di mediazione tra le
esigenze degli autori e quelle degli attori.
Questa funzione, priva di
riconoscimento ufficiale, veniva svolta dagli stessi autori, oppure dai
direttori dei teatri, a volte da uno degli attori. Il compito e la fisionomia
della regia teatrale cominciarono ad essere posti in evidenza negli ultimi anni
dell’800 grazie alle idee e al lavoro di alcuni nuovi attori/registi al punto da
dare vita ad una decisiva riforma teatrale.
È curioso notare che in quello
stesso anno, il 1887, Andrè Antoine, un attore/regista francese di 29 anni,
fondasse a Parigi il “Théâtre Libre”, e a Mosca Konstantin Stanislavskij
debuttasse, a soli 24 anni, come attore/regista nel teatro del Circolo Moscovita
di Arte e Letteratura. In quel 1887, dunque, mentre la Bernhardt trionfava con
“La Tosca” di Sardou, nella stessa Parigi e a Mosca debuttavano i due primi
grandi registi anticipatori del teatro moderno.
La compagnia di Antoine si
sciolse nel 1896, mentre nel 1898 Stanislavkij fondò con Vladimir Nemirović
Danćenko il “Teatro d’Arte” di Mosca, che diverrà celebre per le messe in scena
de “Il Gabbiano”, “Zio Vania” e “Le Tre Sorelle” di Anton Cechov.
È in questo
contesto che Sarah Bernhardt e Victorien Sardou rappresentarono “La Tosca”. Un
contesto vivissimo, che annunciava grandi cambiamenti, straordinarie innovazioni
nell’arte teatrale.
“Io Sarah, io Tosca” di Laura Morante racconta Sarah
Bernhard nei giorni precedenti il debutto de “La Tosca”. Il testo è costruito in
tre quadri: il primo, il 3 novembre 1887, all’inizio delle prove; il secondo due
settimane dopo; il terzo all’alba del 24 novembre, il giorno della prima
rappresentazione.
Nel nostro spettacolo, in scena ci sono Sarah e una
musicista, che interagisce, commenta e dialoga soltanto con il suono del suo
pianoforte e con il canto, in un flusso continuo di recitazione, azione e musica
spero avvincente, emozionante, e a tratti anche divertente. Daniele
Costantini
dal 5 al 7 novembre, Gli Ipocriti Melina Balsamo diretta da
Pierfrancesco Favino presenta "Il marito invisibile" scritto e diretto da
Edoardo Erba
con Maria Amelia Monti, Marina Massironi
scene Luigi
Ferrigno, musiche Massimiliano Gagliardi
costumi Nunzia Russo, luci Giuseppe
D’alterio
video Davide Di Nardo, Leonardo Erba
Il marito invisibile di
Edoardo Erba è un’esilarante commedia sulla scomparsa della nostra vita di
relazione. Le due protagoniste ci accompagnano con la loro personalissima
comicità in un viaggio che dà i brividi per quanto è scottante e attuale.
Una
videochat fra due amiche cinquantenni, Fiamma e Lorella, che non si vedono da
tempo. I saluti di rito, qualche chiacchiera, finché Lorella annuncia a
sorpresa: mi sono sposata!
La cosa sarebbe già straordinaria di per sé, vista
la sua proverbiale sfortuna con gli uomini. Ma diventa ancora più incredibile
quando lei rivela che il nuovo marito ha non proprio un difetto, una
particolarità: è invisibile.
Fiamma teme che l’isolamento abbia prodotto
danni irreparabili nella mente dell’amica. Si propone di aiutarla, ma non ha
fatto i conti con la fatale, sconcertante, attrazione di noi tutti per
l’invisibilità.
Note di regia
Nella regia de Il marito invisibile ho
voluto creare una realtà virtuale più ricca e articolata della realtà che
vediamo sul palco. Le attrici recitano sullo sfondo di un blue screen circondate
da una realtà monocromatica, che prende vita e colore solo dal piano della
telecamera in su.
Sui grandi schermi che sovrastano il palco, invece, le
vediamo vivere nelle loro case, piene di oggetti, di luci, di fumo, di colori e
di movimento. Il contrasto – funzionale alla storia che la commedia racconta –
mette lo spettatore in una situazione nuova.
Può guardare le attrici sui
grandi schermi, godendosi il loro primo piano o, viceversa, guardarle dal vivo
sul palco o, ancora, guardarle un po’ da una parte, un po’ dall’altra,
“montando” le immagini come meglio crede.
Benché composto da cinque scene con
passaggi di tempo fra l’una e l’altra (cinque atti si sarebbe detto una volta)
lo spettacolo non prevede mai il buio. Gli schermi sono sempre attivi, perché
quando i personaggi escono di scena, prendono il cellulare e il pubblico vede
ingrandito quello che loro vedono sullo schermo del telefono.
Ne esce un
atto unico dal ritmo incalzante, che cattura lo spettatore dalla prima battuta,
senza lasciargli mai la possibilità di distrarsi.
Ho lavorato con un team
eccezionale, che mi ha aiutato a far sembrare semplice una tecnologia in realtà
piuttosto complessa. Massimiliano Gagliardi è stato complice della regia e
autore di bellissime musiche. Leonardo Erba ha collaborato all’idea generale e
ha inventato video ironici e imprevedibili; Davide Di Nardo ha immaginato e
realizzato con creatività il supporto tecnico della presa diretta, gli sfondi
virtuali e gli effetti speciali; Luigi Ferrigno e Sara Palmieri hanno studiato
scene minimal ma di grande impatto; Giuseppe D’Alterio ha trovato, con le luci,
il difficile equilibrio fra palco e realtà virtuale; Nunzia Russo ha cucito
costumi semplici ed efficaci; Salvatore Addeo ha padroneggiato la parte sonora
con maestria.
E la produzione ha creduto, incoraggiato e realizzato
un’operazione che ci rende tutti orgogliosi ma che sarebbe fatica sprecata se
non fosse sostenuta dalla bravura, dal talento e dalla straripante comicità di
due grandi attrici: Maria Amelia Monti e Marina Massironi. Edoardo Erba
Sabato 6 novembre alle 18,30 al Teatro Comunale di Caserta il
secondo appuntamento del ciclo “Il Salotto a Teatro”, la serie di incontri tra i
protagonisti della scena e il pubblico. Ospiti dell’evento, curato dalla
giornalista Maria Beatrice Crisci, saranno Maria Amelia Monti e Marina
Massironi.
dal 21 al 23 gennaio, Teatro di Napoli - Teatro Nazionale, La
Pirandelliana presentano "A che servono questi quattrini" di Armando Curcio
regia Andrea Renzi, con Giovanni Esposito, Valerio Santoro, Gennaro Di Biase,
Luciano Saltarelli, Chiara Baffi, Fabrizio La Marca
scene Luigi Ferrigno,
costumi Ortensia De Francesco
luci Antonio Molinaro, foto di scena Marco
Ghidelli
A che servono questi quattrini è una commedia di grande attualità.
Andata in scena per la prima volta nel 1940 al Teatro Quirino di Roma, fu una
delle più divertenti commedie che resero celebri i grandi fratelli De Filippo,
Eduardo e Peppino.
La vicenda ruota intorno al Marchese Parascandolo detto il
Professore che per dimostrare le sue teorie socratiche, bizzarre e
controcorrente, ordisce un piano comicamente paradossale che svela l’inutilità
del possesso del denaro.
L’Italia di lì a poco sarebbe entrata nel conflitto
della II Guerra Mondiale e il mondo post-capitalistico dell’alta finanza era di
là da venire, ma l’argomento, così esplicitamente indicato nel titolo, stuzzicò
la curiosità del pubblico di allora tanto che, pochi anni dopo, nel 1942, la
commedia venne trasposta sugli schermi cinematografici per la regia di Esodo
Pratelli con Eduardo e Peppino De Filippo protagonisti e con, tra gli altri,
Clelia Matania e Paolo Stoppa.
Bolle finanziarie, truffe internazionali,
fallimenti di colossi bancari, tassi di interesse sproporzionati, spread e
fiducia nei mercati sono “slogan” e ridondanti informazioni ampliamente invasive
cui ci siamo abituati e che, per la maggior parte di noi, indicano situazioni
fumose e di oscura interpretazione.
E forse proprio spingendo sul parossismo
del gioco teatrale, mostrato a vista, e sull’assurda fiducia della variegata
comunità coinvolta nel piano del Marchese Parascandolo, si può, con la
scanzonata e creativa adesione degli attori e in un clima popolare e festoso,
relativizzare il potere dei “quattrini”, valore-totem indiscusso, che tutto
muove oggi come allora.
dal 28 al 30 gennaio, (RInviato al
25-27 Marzo) Marche Teatro,
Teatro di Roma, Elledieffe presentano "Dolore sotto chiave/Sik Sik l’artefice
magico" di Eduardo De Filippo
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Vincenzo
Ferrera, Dario Iubatti, Remo Stella, Marco Trotta
regia Carlo Cecchi
Dolore sotto chiave, scene Sergio Tramonti, costumi Nanà Cecchi, luci Camilla
Piccioni
Sik Sik l’artefice magico, scene e costumi Titina Maselli,
realizzazione scene e costumi Barbara Bessi, luci Camilla Piccioni, musica
Sandro Gorli
Un dittico con la regia di Carlo Cecchi che riunisce due atti
unici di Eduardo De Filippo: Dolore sotto chiave e Sik-Sik, l’artefice magico.
Dolore sotto chiave nasce come radiodramma nel 1958, andato in onda l’anno
successivo con Eduardo e la sorella Titina nel ruolo dei protagonisti, i
fratelli Rocco e Lucia Capasso. Viene portato in scena due volte con la regia
dell’autore, con Regina Bianchi e Franco Parenti nel 1964 (insieme a Il berretto
a sonagli di Luigi Pirandello) per la riapertura del Teatro San Ferdinando di
Napoli e nel 1980 (insieme a Gennareniello e Sik-Sik) con Luca De Filippo e
Angelica Ippolito.
Lucia, sorella di Rocco, per molti mesi nasconde al
fratello – nel timore che questi possa compiere un atto inconsulto – l’avvenuta
morte della moglie Elena e finge di occuparsi delle cure della donna, gravemente
malata. Lucia impedisce a Rocco di vedere la moglie, con la scusa che la sua
sola presenza potrebbe causare emozioni che potrebbero esserle letali. Rocco,
esasperato dalla interminabile agonia di lei, in una crisi di rabbia entra a
forza nella stanza della malata e la scopre vuota.
Lucia gli rivela l’amara
verità: la moglie è morta da tempo, mentre lui era in viaggio per lavoro.
Comincia qui un alternarsi di responsabilità e accuse fra i due fratelli; si
presentano, non voluti da Rocco, i vicini, per sostenerlo nel lutto; infine
Rocco rivelerà alla sorella i suoi segreti.
In Dolore sotto chiave torna in
scena il tema della morte, affrontato da Eduardo in tante sue opere, in chiave
comica, seria o semiseria: da Requie a l’anema soja, al primo atto di Napoli
milionaria! Fino al parodistico funerale dell’ultimo lavoro, Gli esami non
finiscono mai. In Dolore sotto chiave questo tema non è poi così centrale come
potrebbe sembrare, la morte non è la protagonista della vicenda.
A tenere la
scena non sono le conseguenze della morte di Elena, ma una vita che non è più
vita proprio perché qualcuno ha deciso di sottrarre quell’evento alle sue leggi
naturali. La morte fa il suo corso – sembra dire Eduardo – portando con sé un
carico di lutti, ma all’uomo non resta che affrontarla, perché anch’essa fa
parte della vita e cercare di negarla, di non riconoscerla, significa negare la
vita stessa. E non c’è mostruosità peggiore, dice l’autore per bocca del suo
personaggio, che bloccare il flusso naturale dell’esistenza, sostituire la vita
vera con una artificiale e falsa, in cui anche i sentimenti, i dolori, le
emozioni risultano paralizzati (I Meridiani, Einaudi)
Sik-Sik l’artefice
magico, atto unico scritto nel 1929, è uno dei capolavori del Novecento. “Come
in un film di Chaplin” – dice Carlo Cecchi – “è un testo immediato,
comprensibile da chiunque e nello stesso tempo raffinatissimo.
L’uso che
Eduardo fa del napoletano e il rapporto tra il napoletano e l’italiano trova qui
l’equilibrio di una forma perfetta, quella, appunto, di un capolavoro.” Sik-Sik
(in napoletano, “sicco” significa secco, magro e, come racconta lo stesso
Eduardo, si riferisce al suo fisico) è un illusionista maldestro e squattrinato
che si esibisce in teatri di infimo ordine insieme con la moglie Giorgetta e
Nicola, che gli fa da spalla.
Una sera il compare non si presenta per tempo
e Sik-Sik decide di sostituirlo con Rafele, uno sprovveduto capitato per caso a
teatro. Con il ripresentarsi di Nicola poco prima dello spettacolo e con il
litigio delle due “spalle” del mago, i numeri di prestigio finiranno in un
disastro e l’esibizione si rivelerà tragica per il finto mago ma di esilarante
comicità per il pubblico.
Con più di 450 repliche solo a Napoli, lo
spettacolo ebbe un successo enorme. Eduardo reinterpretò Sik-Sik alla fine della
sua carriera; recitò per l’ultima volta al Teatro San Ferdinando di Napoli
nell’aprile del 1979 e nel 1980, al Manzoni di Milano, affiancato dal figlio
Luca e da Angelica Ippolito, si ritirò dalle scene dopo cinquant’anni di
carriera. “Partecipai all’edizione del 1980” – ricordava Luca De Filippo in
un’intervista – “Allora ero giovane, fu un momento bellissimo. Avevo già fatto
parti importanti, ma nel ruolo di Rafele riuscii per la prima volta a far ridere
mio padre”
dall’11 al 13 febbraio, Nancy Brilli e Chiara Noschese in “Manola”
di Margaret Mazzantini
regia Leo Muscato
Due sorelle gemelle in contrasto
tra loro, come due pianeti opposti nello stesso emisfero emotivo. Anemone,
sensuale e irriverente, che aderisce ad ogni dettaglio della vita con vigoroso
entusiasmo, e il suo opposto Ortensia, uccello notturno, irsuta e rabbiosa
creatura in cerca di una perenne rivincita.
Le due per un gioco scenico si
rivolgono alla stessa terapeuta dell’occulto e svuotano il serbatoio di un amore
solido come l’odio. Ed è come carburante che si incendia provocando fiamme
teatrali ustionanti, sotto una grandinata di risate.
In realtà la Manola del
titolo, perennemente invocata dalle due sorelle, interlocutore mitico e
invisibile, non è altro che la quarta parete teatrale sfondata dal fiume di
parole che Anemone e Ortensia rivolgono alla loro squinternata coscienza
attraverso un girotondo di specchi, evocazioni, malintesi, rivalse canzonatorie.
Una maratona impudica e commovente, che svela l’intimità femminile in tutte
le sue scaglie. Come serpenti storditi le due finiranno per fare la muta e
infilarsi nella pelle dell’altra, sbagliando per l’ennesima volta tutto.
Perché un equivoco perenne le insegue nell’inadeguatezza dei loro ruoli
esistenziali. Un testo sfrenato che prevede due interpreti formidabili per una
prova circense senza rete. Ma che invoca l’umano in ogni sua singola cellula
teatrale. Margaret Mazzantini
dal 25 al 27 febbraio, Nuovo Teatro diretta da Marco
Balsamo presenta Sergio Rubini in "Ristrutturazione"
ovvero disavventure
casalinghe raccontate da Sergio Rubini, scritto da Sergio Rubini e Carla
Cavalluzzi
musiche eseguite dal vivo da Musica da Ripostiglio
Luca Pirozzi
chitarra e voce, Luca Giacomelli chitarra, Raffaele Toninelli contrabbasso,
Emanuele Pellegrini batteria
regia Sergio Rubini
Dopo anni passati a
pagare l’affitto, metti che un bel giorno ti svegli e decidi di starla a sentire
quella vocina che da anni ti dice di fare quel passo che non hai mai avuto il
coraggio di fare: metterti sulle spalle un mutuo e comprare finalmente una casa
tutta tua. I benefici di essere proprietario di un immobile li conoscono tutti.
Ciò che nessuno dice sono i sicuri disastri a cui andrai incontro il giorno
in cui deciderai di mettere quell’unico bene che possiedi nelle mani di una
ristrutturazione.
Ristrutturazione è il racconto appunto, in forma
confidenziale, della ristrutturazione di un appartamento, un viavai di
architetti e ingegneri, allarmisti e idraulici, operai e condòmini. Una pletora
di personaggi competenti e incapaci, leali e truffaldini, scansafatiche ed
operosi fino all’esaltazione che si avvicendano nella vita dello sfortunato
padrone di casa stravolgendola senza pietà.
E questa vita sconvolta lo è
ancor di più se i padroni di casa sono due, un Lui e una Lei, con i loro diversi
punti di vista, la loro diversa capacità di resistere all’attacco quotidiano
delle truppe corazzate che trasformano il loro “nido” in una casa occupata.
E quando il tubo di scarico si intasa allagando la camera da letto, sembrerebbe
che anche le fondamenta che reggono la stabilità della coppia stiano per
cedere...
Accompagnato e intervallato dai motivi e dalle atmosfere di una
band musicale, il racconto prende il via da molto lontano: una prima casetta a
Roma, un seminterrato con un problema idraulico per il quale si offre di dare
una mano un maldestro autista di cinema che finirà per trasformare il
seminterrato in una piscina; e poi il bell’attico tra i tetti della capitale
dall’affitto galattico dove però non funziona niente, dal citofono all’acqua
calda. Per finire con l’acquisto tanto desiderato di una casa propria, la prima
casa, ed è allora che il fenomeno della ristrutturazione si abbatte sui due
sventurati inesorabilmente.
Una vasca da bagno da costruire in loco, delle
tende frangisole automatizzate, l’installazione dell’allarme e delle relative
telecamere, l’azzeramento di un vergognoso odore di fogna che non molla la presa
per ben trenta giorni, sono le stazioni attraverso le quali si snodano le
vicissitudini del protagonista e della sua compagna che a loro volta
vengono
fuori da quel turbinio di eventi, stressati ma ristrutturati... se non che
l’arrivo della pandemia azzera tutto, imponendo nuove regole e nuovi codici: un
nuovo mondo che necessita a sua volta di una ristrutturazione profonda e
collettiva per poter ricominciare a girare.
Sabato 26 febbraio
alle ore 18.30, sempre al Teatro Comunale di Caserta, Sergio Rubini e Musica da
Ripostiglio saranno ospiti del ciclo di incontri “Salotto a Teatro”, condotti
dalla giornalista Maria Beatrice Crisci.
dal 4 al 6
marzo, Vanessa Incontrada e Gabriele Pignotta in “Scusa sono in riunione…ti
posso richiamare?”
una commedia scritta e diretta da Gabriele Pignotta
con Fabio Avaro, Nick Nicolosi, Siddhartha Prestinari
scene Matteo Soltanto,
costumi Valter Azzini
luci Pietro Sperduti, musiche Stefano Switala
Sabato 5 marzo alle ore 18.30, sempre al Teatro Comunale di
Caserta, la Compagnia sarà ospite del ciclo di incontri “Salotto a Teatro”,
condotti dalla giornalista Maria Beatrice Crisci.
Pignotta dipinge il ritratto della sua generazione, quella dei quarantenni di
oggi, abbastanza cresciuta da poter vivere inseguendo il successo e la carriera
ma non abbastanza adulta da poter smettere diridere ed ironizzare su se stessa.
Scusa sono in riunione...ti posso richiamare? è un’attuale e acutissima
commedia degli equivoci che, con ironia, ci invita a riflettere sull’ossessione
della visibilità e sulla brama di successo che caratterizzano i nostri tempi.
Già il titolo racconta molto di questa commedia, una frase che si trasforma in
tormentone, per una generazione, quella dei quarantenni di oggi, abbastanza
cresciuta da poter vivere inseguendo il successo e la carriera ma non abbastanza
adulta da poter smettere di ridere ed ironizzare su se stessa.
Ex ragazze ed
ex ragazzi che senza accorgersene sono diventati donne e uomini con l’animo
diviso tra le ambizioni ed i propri bisogni di affetto, ma anche in fon do
persone portatrici sane di un fallimento sentimentale vissuto sui ritmi
frenetici di un’esistenza ormai dipendente dalla tecnologia che non lascia
spazio ad un normale e sano vivere i rapporti interpersonali!
Ma cosa
succederebbe se queste stesse persone per uno strano scherzo di uno di loro si
ritrovassero protagonisti di un reality show televisivo?
La risposta rimane
di proprietà di un pubblico che dopo avere riso di se stesso si interrogherà a
lungo sul senso di molti aspetti della sua vita!
Dopo il grande successo
teatrale di Mi piaci perché sei così e quello cinematografico di Ti sposo ma non
troppo ritroviamo la coppia Incontrada Pignotta in una commedia geniale,
travolgente assolutamente da non perdere.
dal 18 al 20 marzo, Silvio Orlando
in “La
vita davanti a sé”
dal testo “La vie devant a soi” di Romain Gary
(Emile Ajar)
riduzione e regia Silvio Orlando
direzione musicale Simone
Campa
con Ensamble dell’Orchestra Terra Madre
chitarra battente e
percussioni, Simone Campa
clarinetto e sax, Gianni Denitto
fisarmonica,
Maurizio Pala
kora, Djambe Kaw Sissoko
scene Roberto Crea
costumi Piera
Mura
disegno luci Valerio Peroni
Pubblicato nel 1975 e adattato per il
cinema nel 1977, al centro di un discusso Premio Goncourt, La vita davanti a sé
di Romain Gary è la storia di Momò, bimbo arabo di dieci anni che vive nel
quartiere multietnico di Belleville nella pensione di Madame Rosa, anziana ex
prostituta ebrea che ora sbarca il lunario prendendosi cura degli “incidenti sul
lavoro” delle colleghe più giovani.
Un romanzo commovente e ancora
attualissimo, che racconta di vite sgangherate che vanno alla rovescia, ma anche
di un’improbabile storia d’amore toccata dalla grazia.
Silvio Orlando ci
conduce dentro le pagine del libro con la leggerezza e l’ironia di Momò
diventando, con naturalezza, quel bambino nel suo dramma. Inutile dire che il
genio di Gary ha anticipato senza facili ideologie e sbrigative soluzioni il
tema dei temi contemporaneo la convivenza tra culture religioni e stili di vita
diversi.
Il mondo ci appare improvvisamente piccolo claustrofobico in
deficit di ossigeno I flussi migratori si innestano su una crisi economica che
soprattutto in Europa sembra diventata strutturale creando nuove e antiche paure
soprattutto nei ceti popolari, i meno garantiti.
Se questo è il quadro quale
funzione può e deve avere il teatro. Non certo indicare vie e soluzioni che ad
oggi nessuno è in grado di fornire, ma una volta di più raccontare storie
emozionanti commoventi divertenti, chiamare per nome individui che ci appaiono
massa indistinta e angosciante.
Raccontare la storia di Momò e Madame Rosa
nel loro disperato abbraccio contro tutto e tutti è necessario e utile. Le
ultime parole del romanzo di Gary dovrebbero essere uno slogan e una bussola in
questi anni dove la compassione rischia di diventare un lusso per pochi:
«Bisogna voler bene».
Tradizione e Comicità.
dal 26 al 28 novembre, Vincenzo Salemme in “Napoletano? E
fammè na pizza!”
“Napoletano? E famme ‘na pizza” è uno spettacolo che
nasce dal mio libro uscito con lo stesso titolo agli inizi di marzo. Titolo che
fa riferimento ad una battuta di una mia commedia teatrale, “E…. fuori nevica”,
nella quale uno dei personaggi chiede al fratello di dimostrare la sua presunta
napoletanità facendogli una pizza. E sì, perché ogni buon napoletano deve saper
fare le pizze, deve saper cantare, deve essere sempre allegro, amare il caffè
bollente in tazza rovente, ogni napoletano che si rispetti deve essere devoto a
San Gennaro, tifare Napoli, amare il ragù di mamma’… e via così con gli
stereotipi che rischiano di rendere la vita di un napoletano più simile ad una
gabbia che ad un percorso libero e indipendente. Tutte le città vivono sulla
propria pelle il peso degli stereotipi ma Napoli più di ogni altra. E, molto
spesso, sono i napoletani stessi a pretendere dai propri concittadini una
autenticità così ortodossa da rischiare l’integralismo culturale. Allora io con
questo spettacolo provo a capire, in chiave ironica, se sono un napoletano
autentico o un traditore dei sacri e inviolabili usi e costumi della nostra
terra. Cominciando dalla confessione di un primo tradimento, una sorta di
peccato originale che rischierebbe di intaccare la mia immagine di attore comico
napoletano. Così, il più delle volte, mi definiscono quando mi presentano da
qualche parte. Ed io, il più delle volte sto zitto. Ebbene, confesso il mio
peccato: io non sono nato a Napoli ma a Bacoli, in provincia di Napoli! Quindi
questo che vuol dire? Che non sono napoletano d.o.c.? Significa che da anni
usurpo un titolo culturale? Voglio cercare con voi la risposta a questa domanda:
“sono” napoletano o “faccio” il napoletano? Aiutatemi!
Scene e costumi:
Francesca Romana Scudiero
Musiche: Antonio Boccia In collaborazione con
Valeria Esposito per “Chi è di scena s.r.l.”
dal 3 al 5 dicembre, Biagio Izzo in “Tartassati dalle
tasse” una commedia scritta e diretta da Eduardo Tartaglia
con
Mario Porfito, Stefania De Francesco, Arduino Speranza, Roberto Giordano, Adele
Vitale
scene Luigi Ferrigno
costumi Marianna Carbone
musiche Antonio
Caruso
disegno luci Francesco Adinolfi
produzione esecutiva Giacomo Monda
Gulio Andreotti soleva dire che l’Umiltà, che di per sé costituisce una grande
virtù, si trasforma in una vera iattura quando gli Italiani la praticano in
occasione della loro dichiarazione dei debiti. “Io le tasse le pagherei.
Ed
anche volentieri! Se solo però poi le cose funzionassero veramente!...”Quante
volte abbiamo ascoltato simili confidenze? E quante volte anche la nostra
coscienza di pur buoni ed onesti cittadini ha segretamente partorito concetti
del genere?... Il problema, però, è che se poi davvero ragionassimo tutti quanti
sempre così, come e perché mai le cose potrebbero veramente funzionare?...
Sarà costretto improvvisamente a domandarselo anche Innocenzo Tarallo, 54 anni
ben portati, napoletano, imprenditore nel settore della ristorazione: il
classico “self made man”, che da nipote e figlio di baccalaiuolo si ritrova ora
proprietario orgoglioso di un ristorante internazionale di sushi all’ultima
moda. E che dopo tanti sacrifici avrebbe voluto ora godersi anche un po’ la
vita; magari anche grazie a qualche piccola “furbizia” di
contribuente… E che
si ritroverà invece in balia di mille peripezie e problemi. E soprattutto
costretto a risolvere il quesito che angustia la stragrande maggioranza di noi:
come è possibile che due parole che da sole evocano così tanta bellezza:
“Equità” e “Italia”, quando si uniscono si contraggono dolorosamente come chi è
in preda alla più dolorosa delle coliche addominali?...
dal 7 al 9 gennaio,
Geppy Gleijeses, Marisa Laurito e Benedetto Casillo in “Così parlò Bellavista”,
adattamento teatrale e regia Geppy Gleijeses
dal film e dal romanzo di
Luciano De Crescenzo, con Antonella Cioli, Gigi De Luca, Vittorio Ciorcalo e
Gianluca Ferrato (Cazzaniga)
e con Ludovica Turrini, Gregorio De Paola,
Agostino Pannone, Walter Cerrotta, Brunella De Feudis
scene Roberto Crea,
musiche Claudio Mattone
costumi Gabriella Campagna, luci Luigi Ascione
Note sullo spettacolo … e altro
Il dibattito
che si è sviluppato per merito de “il Mattino” sull’opera e la figura di Luciano
De Crescenzo, ha un leggero sapore “d’antan”, un po’ da cenacolo culturale anni
‘50, stile Giovannino Guareschi ,quando si discuteva sul livello di fascismo del
“Bertoldo” e di questo suo illustre collaboratore.
Luciano De Crescenzo (che
ha un vantaggio su Guareschi di circa 5 milioni di copie, avendo venduto 25
milioni di copie delle sue opere in 42 Paesi), ha però incontrato, per altri
versi, un destino analogo, a cui, se vogliamo essere onesti, ancora non sfugge.
”Che cos’ è” Luciano De Crescenzo è la domanda più pertinente, non “chi è”.
Una strana e anomala figura nel mondo della letteratura, della filosofia, del
cinema, della poesia; una figura che ha avuto ed ha troppo successo per essere
perdonata. Eppure lui, già nella prefazione alla prima edizione di “Così parlò
Bellavista”, forse presago dell’anatema di certa “intellighenzia”, così
scriveva: “guai a parlare di mare, di sole, e di cuore napoletano! Cominciando
da Malaparte e finendo a Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Domenico Rea,
Raffaele La Capria, Vittorio Viviani e compagnia cantando, il desiderio di
togliere il trucco con il quale per tanti anni era stato imbellettato il volto
della nostra città ha fatto sì che insieme ai cosmetici è stata tolta forse
anche la pelle del viso di un popolo che, pur senza mandolini e chitarre
continuava in ogni caso ad avere una propria fisionomia caratteristica. “Quanto
sono vere queste parole e quanto poco gli sono state perdonate!
Io sono
cresciuto leggendo “Ferito a morte” di La Capria e “Il mare non bagna Napoli”
della Ortese, la prima parte che ho interpretato in una commedia in TV a 23 anni
con Lilla Brignone, Massimo Ranieri e Pupella Maggio in “In memoria di una
signora amica” è stata quella scritta pensando ad Antonio Ghirelli da Patroni
Griffi... Ma poi ho imparato che esistono altri grandi che hanno ritratto più
bonariamente delizie e vizi del nostro popolo,
come Giuseppe Marotta,
Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo e, per certi versi la Matilde Serao, de
“Il ventre di Napoli”.
E sono allievo di Eduardo De Filippo e Peppino Patroni
Griffi, ma non sono cieco. E, nel mio piccolo, so leggere e guardare. E dalle
parole profetiche della prefazione a Bellavista, passai poi a interpretare
Giorgio, il protagonista giovane di quel film, ma poi ho letto e approfondito
l’opera di Luciano.
Egli si definiva un divulgatore, nelle ultime interviste
dice: “Io non sono un filosofo, io ho copiato!” e nel nostro ultimo incontro,
mentre voleva inginocchiarsi perché portavamo “Bellavista” al San Carlo, mi
disse: “No Geppy, io non sono un poeta, sono un quasi poeta”.
Non è vero.
Consiglio a tutti di leggere o rileggere “il nano e l’infanta”, scritto e
disegnato per conquistare una donna quando aveva vent’ anni, opera di pura
poesia, “Raffaele”, “il Dubbio” che forse Luciano considerava la sua opera più
amata, in cui tenta di dare una risposta alle “grandi domande” sul Caso, la
Necessità, l’ Entropia, il Tempo e lo Spazio (e quasi ci riesce), “Oi dialogoi”
in cui, tra sacro e profano, contamina, con metodo platoniano, la speculazione
filosofica con i “fattarielli napoletani”, il capitolo dedicato per esempio a
Cartesio, al Dubbio e al “cogito ergo sum” nella sua splendida “Storia della
filosofia moderna” e infine (ma si potrebbe continuare a lungo) ripensate alla
sua fondamentale teoria dell’uomo d’amore e dell’uomo di libertà, elaborata in
Così parlò Bellavista.
Luciano, e mi perdonerà chi ha più titolo di me, per
quanto mi riguarda, e non credo di sbagliare, non è stato solo un divulgatore: È
stato filosofo sui generis, poeta, romanziere, regista, sceneggiatore, umorista,
attore, eccetera eccetera... Troppa roba per essere perdonati. O, come avrebbe
detto lui, “Troppa grazia Sant’Antonio!!
Sinceramente non pensavo ad
adattare, produrre (con Best Live di Alessandro Siani e Sonia Mormone), mettere
in scena e interpretare “Così parlò Bellavista”. Il ricordo di quel film è nella
memoria mia, e soprattutto della gente napoletana, indelebile e forse
intangibile.
C’era un solo modo limpido e affascinante per portarlo in
teatro.
Distaccarsi dal film e creare un’opera autonoma, specificamente
teatrale. E così nell’adattamento ci sono varie citazioni del romanzo, come ad
esempio il secondo “cenacolo” che si conclude con un concetto poetico e geniale,
degno del miglior Salvatore Di Giacomo.
Parlando delle case di Napoli legate
l’una all’altra dalle corde tese da palazzo a palazzo per stendere i panni ad
asciugare, scrive così: “Immaginate per un momento che il Padreterno volesse
portarsi in cielo una casa di Napoli. Con sua grande meraviglia si accorgerebbe
che piano piano tutte le altre case di Napoli, come se fossero un enorme Gran
pavese, se ne verrebbero dietro alla prima, una dietro l’altra, case, corde e
panni, canzone ‘e femmene e allucche ‘e guagliune...”
L’adattamento teatrale
che ho scritto, come dicevo, non è affatto una pedestre sbobinatura del film.
Chi sa di cinema e di teatro ci insegna che sono necessari codici di
comunicazione molto diversi. Lo spazio scenico a cui ho pensato e che Roberto
Crea ha splendidamente realizzato, ritrae il Palazzo dello Spagnolo, che con i
suoi incroci di scale e le sue prospettive diventa un luogo della mente.
Nella corte del palazzo, suddividendo a volte la scena in settori, si svolge
tutto il racconto, con il cenacolo, il tavolo dei pomodori, la trattoria, il
negozio di arredi sacri e via dicendo. Non avrei potuto condurre in porto questa
impresa senza attori straordinari come Marisa Laurito, deliziosa interprete che
è stata la migliore amica di Luciano (a questo fatto ci tiene assai!), Benedetto
Casillo, mitico Salvatore vice sostituto portiere. E delle musiche in parte
originali e in parte nuove del maestro Claudio Mattone.
Ah, dimenticavo:
Bellavista sarò io, perdonate l’ardire. Abbiamo voluto ambientare lo spettacolo
negli stessi anni del film e in realtà non abbiamo dovuto adeguare all’oggi
nemmeno una battuta. Come ci ha insegnato Luciano, dobbiamo avere fede: “Napoli,
con il suo spirito d’adattamento, è forse l’ultima speranza che ha il genere
umano per sopravvivere “.
I sentimenti nostri, quelli veri, quelli che
Luciano ha descritto, non sono cambiati e non cambieranno mai.(Geppy Gleijeses)
Contemporanei
10 dicembre, SPA Società per Autori
presenta "L’amaca di domani" Considerazioni in pubblico alla presenza di una
mucca
di e con Michele Serra, regia Andrea Renzi
Scrivere ogni giorno, per
ventisette anni, la propria opinione sul giornale, è una forma di potere o una
condanna? Un esercizio di stile o uno sfoggio maniacale, degno di un caso umano?
Bisogna invidiare le bestie, che per esistere non sono condannate a parlare?
Le parole, con le loro seduzioni e le loro trappole, sono le protagoniste di
questo racconto teatrale comico e sentimentale, impudico e coinvolgente.
Le
persone e le cose trattate nel corso degli anni – la politica, la società, le
star vere e quelle fasulle, la gente comune, il costume, la cultura – riemergono
dal grande sacco delle parole scritte con intatta vitalità e qualche sorpresa.
Michele Serra racconta di sé e del mestiere fragile e faticoso dello scrittore
cercando di dipanare la matassa delle proprie debolezze e delle proprie manie.
Ma forse il vero bandolo, come per ogni cosa, è nell’infanzia. Il finale, per
fortuna, è ancora da scrivere.“L’amaca di domani” con Michele Serra
18 dicembre, Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo in
coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana presentano "Mine vaganti" uno
spettacolo di Ferzan Ozpetek
con Francesco Pannofino, Iaia Forte, Erasmo
Genzini, Carmine Recano e con Simona Marchini
e (in o.a.) Roberta Astuti,
Sarah Falanga, Mimma Lovoi, Francesco Maggi, Luca Pantini, Edoardo Purgatori
scene Luigi Ferrigno, costumi Alessandro Lai, luci Pasquale Mari
Ferzan
Ozpetek firma la sua prima regia teatrale mettendo in scena l’adattamento di uno
dei suoi capolavori cinematografici
**2 David Di Donatello **5 Nastri
D’Argento **4 Globi D’Oro
**Premio Speciale della Giuria al Tribeca Film
Festival di New York
**Ciak D’Oro come Miglior Film
Come trasporto i
sentimenti, i momenti malinconici, le risate sul palcoscenico?
Questa è stata
la prima domanda che mi sono posto, e che mi ha portato un po’ di ansia, quando
ha cominciato a prendere corpo l’ipotesi di teatralizzare Mine vaganti. La prima
volta che raccontai la storia al produttore cinematografico Domenico Procacci,
lui rimase molto colpito aggiungendo entusiasta che sarebbe potuta diventare
anche un ottimo testo teatrale. Poco dopo avviammo il progetto del film e
chiamammo Ivan Cotroneo a collaborare alla sceneggiatura.
Oggi, dietro invito
di Marco Balsamo, quella prospettiva si realizza con un cast corale e un
impianto che lascia intatto lo spirito della pellicola.
Certo, ho dovuto
lavorare per sottrazioni, lasciando quell’essenziale intrigante, attraente,
umoristico. Ho tralasciato circostanze che mi piacevano tanto, ma quello che il
cinema mostra, il teatro nasconde, e così ho sacrificato scene e ne ho inventate
altre, anche per dare nuova linfa all’allestimento.
L’ambientazione pure
cambia. Ora una vicenda del genere non potrebbe reggere nel Salento, perciò l’ho
ambientata in una cittadina tipo Gragnano o lì vicino. In un posto dove un
coming out ancora susciterebbe scandalo. Rimane la famiglia Cantone,
proprietaria di un grosso pastificio, con le sue radicate tradizioni culturali
alto borghesi e un padre desideroso di lasciare in eredità la direzione
dell’azienda ai due figli. Tutto precipita quando uno dei due si dichiara
omosessuale, battendo sul tempo il minore tornato da Roma proprio per aprirsi ai
suoi cari e vivere nella verità.
Racconto storie di persone, di scelte
sessuali, di fatica ad adeguarsi ad un cambiamento sociale ormai irreversibile.
Qui la parte del pater familias è emblematica, oltre che drammatica e ironica
allo stesso tempo.
Le emozioni dei primi piani hanno ceduto il posto a
punteggiatura e parole; i tre amici gay sono diventati due e ho integrato le
parti con uno spettacolino per poter marcare, facendone perfino una caricatura,
quelle loro caratteristiche che prima arrivavano alla gente secondo le modalità
mediate dallo schermo. Il teatro può permettersi il lusso dei silenzi, ma devono
essere esilaranti, altrimenti vanno riempiti con molte frasi e una modulazione
forte, travolgente. A questo proposito, ho tratto spunto da personali
esperienze.
A teatro non ci si dovrebbe mai annoiare. Sono partito da questo
per evitare che lo spettacolo fosse lento. Ho optato per un ritmo continuo, che
non si ferma, anche durante il cambio delle scene. Qui c’è il merito di Luigi
Ferrigno che si è inventato un gioco di movimenti con i tendaggi; anche le luci
di Pasquale Mari fanno la loro parte, lo stesso per i costumi di Alessandro Lai,
colorati e sgargianti.
Ho realizzato una commedia che mi farebbe piacere
andare a vedere a teatro, dove lo spettatore è parte integrante della messa in
scena e interagisce con gli attori, che spesso recitano in platea come se
fossero nella piazza del paese e verso cui guardano quando parlano. La
piazza/pubblico è il cuore pulsante che scandisce i battiti della pièce.
Ferzan Ozpetek
16 marzo, Moni Ovadia e Dario Vergassola in scena con “Un ebreo, un ligure e
l’ebraismo”.
Moni Ovadia prova a convertire Dario Vergassola. Un
incontro tra due filosofie e tra due modi di fare teatro e comicità.
Il
“saggio” Moni Ovadia, saggio perché più vecchio, terrà una specie di lezione
sull’ebraismo e il suo umorismo a Vergassola che da buon ligure, per affinità
vicino agli ebrei, cercherà di capirne l’essenza e cercherà di rilanciare dal
suo punto di vista alla lezione del saggio Moni.
Riusciranno i nostri eroi a
trovare un punto di accordo? Riusciranno a trovare il legame tra un modo di fare
umorismo nella tragedia storica degli ebrei, popolo dalle straordinarie storie e
fantastici scrittori, e il modo di far sorridere con l’amarezza e il cinismo
ligure?
Boh, intanto intascheranno il cachet e poi ne riparleranno a cena tra
di loro dopo lo spettacolo.
22 marzo, Drusilla Foer in
“Eleganzissima il recital” di Drusilla Foer
e con Loris di Leo, pianoforte,
Nico Gori, clarinetto e sax
direzione Artistica Franco Godi, distribuzione
SAVA’
Il recital scritto e interpretato da Drusilla Foer, in una nuova
versione aggiornata, prosegue il suo viaggio raccontando gli aneddoti tratti
dalla vita straordinaria di Madame Foer, vissuta fra l’Italia, Cuba, l’America e
l’Europa, e costellata di incontri e grandi amicizie con persone fuori dal
comune e personaggi famosi, fra il reale e il verosimile. In “Eleganzissima”,
essenziali al racconto biografico sono le canzoni, che Drusilla interpreta dal
vivo accompagnata dai suoi musicisti.
Il recital, ricco di musica, svela un
po’ di lei: familiare per i suoi racconti così confidenziali e unica, per quanto
quei ricordi sono eccezionali e solo suoi. Il pubblico si trova coinvolto in un
viaggio nella realtà così poco ordinaria di un personaggio realmente
straordinario, in un’alternanza di momenti che strappano la risata e altri
dall’intensità commovente.
La produzione è della Best Sound di Franco Godi,
compositore per la pubblicità, per la tv e per il cinema fin dagli anni ’60,
nonchè scopritore e artefice dell’hip hop di successo in Italia dagli anni 90 a
oggi .
Drusilla Foer, cantante, attrice e autrice, è da tempo un’icona di
stile. Personaggio irriverente e antiborghese, si presta spesso a sostegno di
cause sociali importanti. Posa per fotografi, stilisti e artisti di prestigio
internazionale. Frequenta con successo televisione e cinema, diventando in breve
una star di culto anche sul web.
Teatro Comunale Costantino Parravano, Via Mazzini 71,
Caserta
Info al numero 0823444051 - Dal lunedì al venerdì (ore 10.00/13.00 e
ore 17.00/20.00