"Il piu’ grande del mondo" al Teatro Civico 14
Caserta - 17 Gennaio 2015
Articolo di Alessia Aulicino
E infine, si sa che sono qui di passaggio, e fra qualche settimana non ne
rimarrà che un pugno di cenere in qualche campo non lontano, e su un registro un
numero di matricola spuntato. Benché inglobati e trascinati senza requie dalla
folla innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e si trascinano in una
opaca intima solitudine, e in solitudine muoiono o scompaiono, senza lasciar
traccia nella memoria di nessuno…
Primo Levi, Se questo è un uomo
Se la furia nazista avesse avuto il solo scopo di uccidere le proprie
vittime, oggi probabilmente non parleremmo della Shoah. O almeno, ne avremmo una
visione diversa. Ciò che caratterizza l’Olocausto, oltre all’efferatezza degli
omicidi, è l’intento profondamente specifico, di cancellare ogni traccia
dell’esistenza dell’ individuo, di annullare ogni percezione umana del singolo
per disperderlo in un enorme mattatoio dove la disperazione prende il posto
della compassione, anche tra i detenuti stessi. Nel suo libro “L’Asimmetria e la
vita”, scritto a vari anni di distanza dalla liberazione, Primo Levi afferma:
"Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è
spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne
descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza
ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso
morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto,
una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor
patrio e di fedeltà a un’idea".
A tale meccanismo se ne aggiunse uno apparentemente più inoffensivo, ma che
costrinse gli ebrei d’Italia e Germania a vivere l’inferno molto prima della
deportazione. Le leggi razziali erano una macchina fraudolenta che trascinò
individui anche noti del tempo in un tunnel senza uscita. Non esisteva merito,
né carica, né autorità di fronte all’enorme vergogna d’essere ebrei, zingari o
omosessuali. Tante persone erano ancora vive eppure avevano già perso la propria
storia. Arpad Weisz è stato uno di questi. Abile calciatore ungherese venne ben
presto assorbito nella Serie A del nostro paese, ma a causa di un infortunio
dovette lasciare giovanissimo il proprio ruolo, ma di certo non il campo.
Diventò un grande allenatore, autore di numerosi manuali sul giuoco del calcio.
I più grandi successi li ebbe alla guida del Bologna con il quale vinse due
scudetti e il Torneo dell’Esposizione Universale di Parigi contro il Chelsea.
Venne deportato nel 1944 ad Auschwitz, mentre la moglie e i figli piccoli
morirono nel campo di Birkenau.
Il Teatro Civico 14 porta in scena il racconto della vita di Arpad attraverso un
monologo talmente ben scritto ed interpretato da sembrare una rappresentazione
con molteplici attori. Roberto Solofria dimostra una straordinaria padronanza
del palcoscenico, riuscendo a mantenere altissima l’attenzione fino alla fine.
Ha decine di date, di luoghi, di nomi da ricordare, eppure non sbaglia neanche
un colpo, tanto che spesso si ha la sensazione di avere davanti non un attore,
bensì il fantasma dell’allenatore. Da abile maestro riesce senza sforzo a
passare dall’entusiasmo alla preoccupazione, dalla disperazione fino alla totale
rassegnazione: unica finestra sul mondo una lavagna silenziosa, che trattiene
frasi ermetiche testimoni del divenire di Arpad , prima uomo, poi allenatore,
poi ebreo, come se non lo fosse mai stato in quel modo. Meravigliosa la
scenografia, essenziale e potente. L’uso delle sbarre rende perfettamente la
sensazione claustrofobica dei lager, le candele trasformano la scena in un luogo
di veglia, sentito e commovente. Un grande applauso, insomma, alla compagnia
“Mutamenti” per la realizzazione di questa perla, che nella sua seppur breve
durata, resterà indimenticata per messaggio e potenza.
consulta: Stagione
Teatrale 2014/2015 al Teatro Civico 14