Teatro Garibaldi: recensione di “Il piacere dell'onestà”
S. Maria C. V. (CE) – 7 dicembre 2009
Articolo e foto di Salvatore Viggiano
C'era qualcosa che aleggiava nell'espressione del manifesto, in bacheca fuori al
teatro; un brusio sotterraneo che sussurrava qualcosa di particolare e profondo.
Era strano attendere nel palchetto nei minuti precedenti allo spegnersi delle
luci di sala. Molti non conoscevano la trama, molti altri, forse in misura
maggiore, non conoscevano la rilettura del regista. Fabio Grossi, con una
produzione Teatro Eliseo, propone la propria versione scenica de 'Il piacere
dell'onestà', vedi tra le opere eticamente più sferzanti di Luigi Pirandello.
Leo Gullotta, che nel pomeriggio ha anche incontrato il pubblico nel Salone
degli Specchi del Teatro Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere, indossa gli
abiti di Angelo Baldovino, gentiluomo imprevedibile, 'dialetticamente' eroico,
capace di frastornare con la propria legge morale, imperativa, e di esprimere i
principi più pungenti con serafica eleganza. Adorabile, prima nel completo di
panno marrone, poi in quello da cerimonia, l'attore siciliano svolge il copione
da maestro, affiancato da attori di notevole capacità. Agata (Valentina Beotti),
è la figlia angustiata da ripetute crisi, blandita dal fitto perbenismo della
propria famiglia, che si industria per trovarle un marito, disposto ad essere
oltretutto padre. O meglio, fare da padre. Lo scenario è percorso da relazioni
sottaciute, mire (poveramente) astute della famiglia, rappresentata da una
mirabile Mirella Mazzeranghi, da Martino Duane e Paolo Lorimer. Ruoli bene
incarnati, tra le mura di un ambiente immerso nella natura. Nella placidità del
prato, l'inconsistenza dei personaggi. Ritorna puntuale il tema pirandelliano
della 'maschera' inseparabile per chi voglia sperimentare società e rapporti
umani artefatti. E Baldovino, remissivo alla legge universale della finzione
verso gli altri, si presta al suo ruolo. Resta accanto ad Agata, ma il suo
discorrere è una forza sottile ed inarrestabile nei confronti degli
interlocutori, li demolisce, li corrode, scaraventa lontano i loro disegni sul
futuro. 'Sarò l'intelligenza che non perdona, ma compatisce', un colpo di ascia
inferto da Gullotta nella minimale sicurezza-scudo dei personaggi. Poi la
matassa si dipana precipitosa. 'Mi vorrebbero cacciar via come un ladro';
l'onestà di Baldovino li riduce a rendersi colpevoli dei misfatti, non
nell'apparenza, dove è lui, inchinandosi al paradosso, ad una dinamica
grottesca, che appare colpevole. Con la variante che è Gullotta il regista delle
azioni. Manovra gli illustri familiari come marionette aventi parvenza di nobili
anime. Gentiluomini bisogna confermarsi in ogni atto dell'esistenza, eroi lo si
diventa per un caso fortuito, o di coraggio, ma comunque isolato dal resto.
Per chi si fosse commosso nell'ultima scena, niente di anormale. Gullotta viene
confortato dalla giovane Agata per la propria limpida condotta, è preda per
l'ultima volta dei vincoli della maschera. La donna ha saputo toccare con mano
la bontà della sua vita, ha conosciuto l'uomo, non l'artefatto, e le lacrime di
Gullotta tra le sue braccia restituiscono onore al vero.
Interessante il progetto di luci ed effetti sulla scena in veloce scorrimento
dei dieci mesi di gestazione. Una carrozzina, parenti in esagitazione, la casa
sulla quale cadono foglie secche autunnali, bagliori e frastuoni, ed il tecnico
luci che ricorre a diversi giochi fotografici per concitare il passaggio (i clic
sui tasti del mixer luci risuonavano fino ai palchetti più alti).
È tutto in una frase, forse. 'Se vi fosse regolarità nei sogni, sarebbe molto
difficile distinguere il sonno dalla veglia'. L'uomo, e la bestia che in lui
dimora, hanno però il beneficio dello scarto tra sonno e veglia, e restano
lucidamente consapevoli della maschera, come della realtà misconosciuta di
ognuno.