Recensione di "La Corale dei nomi propri" ad Officina Teatro
Caserta – 7 Novembre 2009
Articolo e foto di Rossella Barsali
Mi bruciano gli occhi e mi duole il plesso solare, scossa da un tremito che
rimanda a tutti i patimenti infami subiti dal mio genere: sono donna, ho appena
assistito a “La Corale dei nomi propri”.
Credevo di essere una, invece sono migliaia di donne; e di ognuna porto il peso
ed il dolore. Di ognuna sento e levo la voce, come una serie di aliti accordati
in un “fiato” unico, antico, dolente, vero. Cerco il mio nome, ne trovo tanti:
fin quando non avrò sposato il mio, reale, non si compirà il mio destino. Nel
nome, secondo le filosofie orientali, c’è un segno identificativo che supera la
sonorità, e ritorna indietro più denso. Strano che a ricordarmelo sia un uomo, e
peraltro più giovane di me.
Anna.
Franca.
Dora Maar.
Aisha.
Dalia.
Valentina.
Michele Pagano cura la regia e ammal(i)a le coscienze: di verità! Ha scelto di
rappresentare il sopruso con un buio accecante, che taglia i volti a metà,
lasciandone sempre in ombra una parte: quasi che una donna non riesca mai ad
essere intera, ma porti in sé una negazione, i segni della prevaricazione messi
in risalto da spot accecanti che nascondono la polvere che residua. Ha scelto
una sinfonia vocale di suoni che scompongono, scandiscono e poi intrecciano le
vicende, obbedendo al ritmo della sofferenza. Divergendo nelle parole di Anna
Politkovskaja “…primo problema: l’acqua… sesto problema: il coprifuoco…” e di
Aisha “…Sento le urla del parto di mia madre, e quelle del neonato… soffocata
nella pelle di pecora, era femmina…”. Accavallandosi sulle emozioni di Dora Maar
“…Vogliono tutti entrare dove è entrato lui, per una forma di contagio,
dell’arte…” e di Valentina: “…Vive con l’altra, fa l’amore con l’altra e mi
chiama e dice che mi ama…”. Infine sovrapponendosi nei destini di Dalia “…Mia
nonna mi chiamava la sua regina…800 dollari, mia nonna mi ha venduto per 800
dollari…” e di Franca “…Ho firmato un foglio in bianco, ma tutte, proprio tutte
noi lo hanno fatto… se resto incinta mi licenziano…”. Ha scelto di dare corpo e
anima, senza melodrammi, senza orpelli inutili, a Malamore (C. De Gregorio),
Passi affrettati (D. Maraini), Donna non rieducabile (S. Massini) e Amori
criminali (AA.VV), tacendo dei soprusi delle età dell’innocenza, l’infanzia e la
vecchiaia. Ma questi bastano!
Bastano a redarguire chiunque dimentichi, anche solo per un attimo, che se una
donna esercita il suo libero pensiero nella professione può diventare la voce di
una libertà di stampa negata con la forza, con la morte (Fulvia Castellano
trasmette forza, pietas e coraggio nei panni di A. Politkovskaja). Che se una
donna decide di amare un uomo che promette e non mantiene, può essere cosparsa
di benzina, bruciata viva, sfigurata e mutilata per sempre (Teresa Perretta,
sofferta, soave, tenerissima Aisha). Che se una donna esercita il proprio
diritto alla maternità, può dover rinunciare al lavoro (Carmen Mennella,
accasciata nei suoi desideri di realizzazione, prima vestita come un uomo, poi
nuda col volto coperto a simboleggiare tutte, a lasciarsi negare - con una X di
vernice sui seni, sul ventre e sulla schiena - la propria sessualità
procreativa. Che se una donna decide di amare e poi interrompere l’amore, per
dignità, può dover rinunciare alla vita (Caterina Di Matteo, il cui rantolo
finale di morte per soffocamento scende a rimbombare nel mediastino e comprime
il diaframma, la cui perseveranza nel ripetere la frase: “…domani cambio la
serratura!” rivela l’antica saggezza e la virtù premonitoria). Che se una donna
è una ragazzina, può accadere che gli adulti che abusano di lei non sempre siano
sconosciuti, ma spesso il carnefice, che blandisce e baratta, appartiene alla
propria carne (Carmela Gilda Tomei, adorabile nel passaggio dalle
inconsapevolezze infantili alle brutalità degli adulti e che usa l’espediente
dello sfregio per tornare a casa). Che se una donna ama attraverso l’arte,
piomba nel vortice di colori ed espressioni, fino ai ceppi nodosi della pazzia,
perché può accadere che l’artista, per continuare ad essere tale, attinga da
lei, prevarichi l’invalicabile personale e calpesti, fino ad annientare (Tonia
Bosso, un’icona assoluta, quasi una divinità matriarcale, una “matuta”
completamente dipinta come una tela a tinte amaranto e muschiate, con occhi e
labbra di brace, intercala frasi in spagnolo e italiano con una voce che è un
canto elegiaco).
Tutto si compie, nel nome: Anna (la forza spezzata), Dalia (il fiore deflorato),
Dora Maar (Dora pro nobis), Franca (di sincero sentire), Valentina (di lento
agire), Aisha (donna in fiamme).
Ma tutto si può cambiare.
Anzi, si deve.
Visceralmente, coralmente.
consulta: Officina Teatro
Stagione 2009/10 "Prospettive Contemporanee"