Caserta, 20 Gennaio. Un classico del teatro, la commedia degli equivoci. Con
L’albergo del silenzio, in questi giorni in programmazione al Comunale,
Scarpetta legge Feydeau e trasporta a Napoli una storia di infelicità
coniugali, passioni segrete e persino voci di fantasmi. Ovviamente il silenzio
non esiste, si riempie di mille parole, lazzi e frizzi, come nel teatro di
cento anni fa, e alla fine dello spettacolo scosciano applausi e risate. Resta
solo da guardare l’orologio e chiedersi in che anno siamo. Perché L’albergo del
silenzio trasporta in un tempo lontano, lontanissimo. Quando per un pittore
decoratore sfaccendato sposare una donna anziana era un vero affare. Quando un
geometra era un buon partito ma poi, diventato marito, diventava una noia
mortale. Quando gli studenti del collegio avevano bisogno di un bel po’ di
incoraggiamento prima di lanciarsi in una dichiarazione. Quando le servette
erano davvero modelli insuperati di femminilità. Era tanto tempo fa.
Ma allora come ora, non mancavano i desideri di rivalsa e di fuga, e l’annuncio
di un albergo del silenzio era una vera salvezza. In cui tutti cercano rifugio,
gli uni all’insaputa degli altri.
Si entra e si esce, per tutto lo spettacolo, dalla casa, dall’albergo, dalla
terrazza. Personaggi principali e secondari si alternano in un via vai continuo
che trascina lo spettatore dentro la storia: Felice e Rosina, il geometra e la
giovane moglie Concetta, il nipote in collegio e l’avvocato meterobalbuziente,
le nipotine impertinenti, il cameriere furbo, il garzone stolto e il
commissario di polizia che non capisce niente. Ciascuno con una precisa
caratterizzazione, con una propria pronuncia teatrale, giochi di parole,
dialoghi e scene corali – le più esilaranti – con una scenografia che cambia ad
ogni atto. Una regia semplice e completa, che dà agio a ciascun attore di
esprimersi al meglio: nessuno si sovrappone, ognuno cattura uno spicchio di
simpatia. Alla fine, gli equivoci si sciolgono e i matrimoni si ricompongono,
come se nulla fosse accaduto. O quasi. Anche l’infelicità era un malinteso. Si
ritorna ad essere se stessi, quelli di sempre, e questo in fondo non è così
male. Le vite riprendono da dove erano incominciate, le traiettorie si erano
solo incrociate, tra loro e con quelle degli spettatori. Si entra a teatro, si
esce nella vita. Restano scie di storie, che per tre atti abbiamo fatto un po’
nostre.
consulta: Stagione Teatrale 2007/2008
al Teatro Comunale |
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