Caserta, 15 marzo. E’ con la messa in scena della commedia di Molière che si chiude la stagione teatrale del Comunale. Non poteva esserci migliore conclusione: bravissimi gli attori, brillante e dinamica la commedia, perfetta la regia di Arturo Cirillo che sulla scena interpreta il personaggio del “colto” poeta Trisottani.
La comicità, al di là dell’intreccio, è tutta nella PAROLA, allusiva, evocatrice, provocatoria: il saperla usare è indice di cultura. I personaggi sono di volta in volta impegnati in scambi linguistici esilaranti, recitano come parlano, proprio come voleva Molière, e manifestano nel loro incontro-scontro verbale le loro posizioni filosofiche o “pseudofilosofiche”, il loro punto di vista sulla realtà, le loro frustrazioni, le loro aspirazioni. Lo spettatore ne resta affascinato, quasi subisce questa forza del “parlato” e diventa anche lui partecipe del gioco scenico.
La vita non sarebbe che una questione di linguistica, afferma Filaminta, convinta che la cultura sia il mezzo dell’indipendenza e della libertà femminile.
E linguistica per Filaminta è grammatica, concordanza, ordine, retorica, artificio, rifiuto del “qualunquismo”. Il suo idolo è il poeta Trisottani, che, tronfio della sua scrittura ermetica, dei suoi versi sconclusionati e incomprensibili, ma seducenti proprio per la loro inespressività, diviene allegoria di tanti “intellettuali” d’oggi.
A questa cultura fatta di formalismo che Filaminta, sua figlia Armanda e la zia Belisa, inseguono in un disperato tentativo di emancipazione sociale, ancor prima che culturale, si oppongono suo marito Crisalo, bonaccione, un po’ rozzo, amante della buona cucina e non delle parole, suo fratello Aristo, il giovane ma onesto Clitandro, la servetta Martina, e più di tutte Enrichetta, seconda figlia di Crisalo e Filaminta, che di cultura non vuole proprio saperne: più che elevarsi sulle cime della filosofia preferisce farsi sollevare dalle braccia di un marito che ama.
I personaggi diventano allora, da un punto di vista linguistico, immagini simboliche di categorie dialogiche in cui si manifestano l’incomprensione e l’inganno delle lingue. Ma l’inganno non è solo linguistico: le battute colte “quando si perde tutto si trova il proprio io”; “la cultura è violenza se usata da ignoranti”, “niente usura l’amore come la povertà”, rivelano anche l’amara consapevolezza delle menzogne con le quali inganniamo spesso anche noi stessi, soffocando la nostra vera natura. Così sul palcoscenico il reale e l’apparenza si scambiano, l’apparente rusticità diviene reale sapienza e la sapienza salomonica si fa sciocca e futile baggianeria.
Per fortuna in Molière è la natura a trionfare: la spontaneità dei sentimenti, l’amore vero, soprattutto la felicità di chi è consapevole dei propri limiti.
Consulta Teatro Comunale di
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