Teatro Comunale: Finale di partita
Caserta – 25 gennaio 2007
Articolo di Arianna Quarantotto, foto Massimo Amato
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Teatro comunale, giovedì 25 gennaio. Che sia tragico o tragicomico, il teatro
di Beckett è sempre un teatro difficile. Difficile da portare in scena e
difficile da comprendere, soprattutto da un pubblico amante della risata
facile, gioiosa, che poi, a volte, è anche liberatoria.
In “Finale di partita” il riso invece è solo accennato: l’atmosfera è surreale
e il dramma che vivono i due protagonisti, Clov e Hamm, il primo destinato a
non sedersi mai con le sue gambe di legno, il secondo cieco e condannato ad una
sedia a rotelle, scuote e sconcerta. In un ambiente anch’esso irreale, sospeso
nel vuoto, con alte finestre che danno sul nulla, illuminato a tratti da luci
fredde e opache, in cui non vi è traccia di umano, spuntano da due bidoni
dell’immondizia i genitori di Hamm, che trascorrono il tempo loro rimasto in
conversazioni insensate.
Beckett, che amava il gioco degli scacchi, ha voluto riportare sulla scena
proprio il finale di una partita di scacchi, quando le pedine sono poche e il
re è “figura di attacco e di difesa”. Hamm, magistralmente interpretato da
Franco Branciaroli è proprio il re, che attacca e si difende, in una partita
tutta verbale, da Clov. Il suo accento francese alla Clouseau rende ancor più
assurda la messa in scena e a volte ci fa perfino sorridere: i suoi continui e
assurdi ordini dati a Clov, la minaccia costante di quest’ultimo di
abbandonarlo, sembrano proiettare su una scacchiera ideale le ultime mosse
(verbali) dei giocatori-pedine, vittime e carnefici allo stesso tempo.
Il pubblico ha applaudito soprattutto alla bravura degli attori che hanno
puntano tutto sul linguaggio, sulla parola ad effetto: Branciaroli, che ha
voluto seguire le didascalie di Beckett, non invita a trovare un senso alla
vita perché sostanzialmente questa un senso non ce l’ha; ci fa riflettere però
sul valore della parola, a volte sconnessa, senza senso, e tuttavia
“creatrice”: verbum insomma.
Se Dante accusava la parola di non essere capace di esprimere la sua esperienza
mistica, quell’andare al di là dell’umano e vincere lo smarrimento e la
disperazione umana: “trasumanar significa per verba non si poria”, qui invece
Branciaroli va “al di là dell’umano”, coglie “la comicità dell’infelicità”
proprio con la parola che però diventa metafora del caotico e per Beckett
assurdo viaggio esistenziale dell’umanità. Il mondo non riesce a comunicare e
al tempo stesso – afferma Braciaroli- è come condannato a produrre parole e
rumore, quasi che il silenzio coincidesse con la morte. Così il teatro traduce
in realtà le immagini interiori tramite la parola e a noi viene in mente la
famosa sestina dantesca che così ci descrive la situazione dei dannati:
“Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira”. (Dante, Inferno, vv 25-30)
“Quell’aura senza tempo tinta” e il tumulto delle voci, senza senso, ci
sembrano proprio la condanna a cui l’uomo di Beckett è destinato. |
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foto © Casertamusica
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