E’ Marco Baliani lo Straniero di Camus. Su una
piattaforma di legno sospesa a mezz’aria in uno scenario buio,
Baliani recita magistralmente la sua parte in un monologo, diretto
da Maria Maglietta, durato più di un’ora e mezza.
Piene ieri sera la platea e la galleria,
soprattutto di liceali, e fa piacere vedere così tanti ragazzi a
teatro.
Lo scenario è di per sé inquietante: una sedia
di legno, un piccolo scrittoio in un angolo, appositamente in
bilico, della sabbia che il protagonista durante il racconto lascia
di tanto in tanto cadere dalla piattaforma sospesa sul palco,
enfatizzandone l’effetto con un fascio di luce. Sullo sfondo, a
tratti, scene di film in bianco e nero del regista Mario Martone: il
mare, le dune di sabbia, il sole accecante, il camminare incessante
di Mersault. Musiche arabe con pochi strumenti.
E’ lui il protagonista, lo straniero, l’uomo
privo di ogni convenzione sociale, di reazioni emotive, indifferente
alla banalità della vita quotidiana anche ora che è nel carcere
algerino per aver ucciso, con quattro colpi di pistola, un arabo.
Gli unici sentimenti che riesce a vivere sono quelli del vuoto e
della solitudine.
L’opera è di per sé il resoconto della sua
vita, dalla morte della madre fino a quel momento.
Mersault vive solo, si annoia, soprattutto la
domenica. Ha degli amici, Celeste, Maria, Emmanuel, ma è
fondamentalmente un taciturno: ama piuttosto osservare le cose,
constatare e comprendere i gesti, le attitudini dei suoi
interlocutori. Il suo tentativo di cercare una continua
giustificazione alla propria esistenza fallisce: egli si sente
continuamente estraneo, i suoi rapporti con gli altri sono basati
sulla totale indifferenza, perfino il funerale della madre, morta in
un ospizio dove era ormai ricoverata da anni, sembra non scuoterlo:
“c’est n’est pas de ma faute”, non è colpa mia, commenterà
egli con il suo capoufficio.
E per questo viene condannato: tutto il processo
sembra ruotare intorno alla sua indifferenza, all’incapacità di
piangere al funerale della madre, al film di Fernandel che ha visto
con Maria, il giorno dopo..
« Enfin, est-il accusé d’avoir enterré sa
mère ou d’avoir tué un homme? » (Insomma, è accusato di aver
sotterrato sua madre o di aver ucciso un uomo ? [..] “Oui, j’accuse
cet homme d’avoir enterré une mère avec un coeur de criminel”.
(Sì, io accuso quest’uomo di aver sotterrato una madre con il
cuore di un criminale).
La miseria umana nasce, secondo Camus, dall’incapacità
del nostro linguaggio di comunicare e dalla nostra tendenza a
giudicare e a condannare senza saper ascoltare: dall’indifferenza.
Mersault è infatti estraneo anche al processo
che si svolge attorno a lui: ogni sentimento è soppresso, le voci
si accavallano, i ricordi, le sensazioni, i perché si alternano
nella sua mente, ma non ci sono risposte. Egli si limita ad
osservare e a tentare di capire, come un qualsiasi spettatore,
dietro il banco degli accusati, il suo processo. Viene condannato
alla ghigliottina.
Il prete che in carcere tenta di riavvicinarlo a
Dio viene allontanato. Eppure, alla fine, egli accetta il suo
destino, per quanto assurdo sia, perché assurdo è in realtà il
mistero che avvolge l’esistenza dell’uomo: “[…] je m’ouvrais
pour la première fois à la tendre indifférence du monde”, (io
mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo)
dirà Mersault prima di essere condannato a morte.
E Baliani ha fatto suo questo mondo enigmatico, ha vissuto con
intensità il dramma dello straniero, nella strenua difesa della
dignità dell’uomo che si erge contro ogni falsità; è riuscito,
senza mai fermarsi, a commuoverci, a farci riflettere, a rendere con
straordinaria sensibilità il dramma dell’uomo moderno.
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