“Quella donna” e la musica italiana (triste)
Tecnicamente parlando, di musica non capisco un tubo.
Intendo dire – tanto per cominciare - che non sono in grado di
riconoscere un ritmo da un altro, se non molto a spanne: mi rendo conto, per
esempio, che esiste qualche differenza tra We will rock you dei Queen e la
Marcia alla turca di Mozart, ma non sono in grado di dire quali siano queste
differenze. Non riesco a distinguere un accordo da un altro né a capire, in
un brano, le eventuali finezze tecniche dei musicisti. Questa lunga premessa
mi serve per dire che sono di certo la persona meno adatta per recensire un
disco, se dalla recensione ci si attendono valutazioni di tipo tecnico sugli
arrangiamenti e le melodie. Nel parlare di “Quella donna”, l'ultimo lavoro
di Tullio Pizzorno, mi occuperò perciò di altri aspetti della composizione,
lasciando l'analisi di ritmi, accordi e suoni agli specialisti del settore.
Ma quali altri aspetti? Dobbiamo chiederci infatti cosa resta di un
disco, se tralasciamo proprio quelle valutazioni di tecnica musicale che,
alle orecchie degli esperti, fanno la differenza tra un grande autore e uno
mediocre. Resta molto, per fortuna. Resta l'intero universo emotivo che la
canzone è in grado di suscitare nell'ascoltatore comune. (Definisco
“ascoltatore comune” colui il quale ascolta musica per puro diletto, quello
che s'innamora di una canzone e si lascia trasportare dalle sue note, quello
che canta ai concerti e stona senza ritegno, dimentico di tutto il resto
finché il brano che ama non è terminato. Insomma, il 99,9% della
popolazione.)
Diciamo la verità: è ben difficile che un autore componga canzoni
destinate esclusivamente a solleticare la competenza dei tecnici. Un
cantautore - mi si permetta di usare questa parola oggi desueta - mira
piuttosto a toccare con la sua musica quelle corde universali dell'animo
umano, che risuonano attraverso l'immedesimazione, l'empatia, il brivido
d'emozione che una bella canzone è in grado di suscitare. Io credo che le
canzoni di Tullio Pizzorno, o almeno una buona parte di esse, abbiano questa
rara capacità di toccare le corde profonde dell'animo umano. Tullio non è
solo un musicista raffinato, come dimostrano le collaborazioni con Mina e
gli attestati di stima ricevuti da personaggi del calibro di Lucio Battisti
e Gino Vannelli, ma è anche - e direi soprattutto - un autore che,
attraverso la musica, riesce ancora a comunicare qualcosa.
Dico «ancora», perché, dal mio osservatorio “privilegiato” di ascoltatore
comune, trovo la musica italiana contemporanea a dir poco «triste», nel
senso che lo stesso Tullio ha usato in un disco precedente (“Musica per
lei”, in “Un dubbio”, poi diventata “Musica per lui” nella versione cantata
da Mina). È una musica «triste» non perché parli di dolori e sofferenze
(anche per questo), ma perché è una musica fintamente popolare che non sa
più parlare al popolo, nel senso che non è più in grado di tirar fuori
emozioni universali. È una musica che in generale non ha più nulla da dire e
che, per ovvia conseguenza, non riesce a comunicare nulla. Mi è oggi davvero
difficile trovare autori italiani contemporanei, e francamente neppure
stranieri, che sappiano emozionarmi. Anche i più famosi, producono spesso
canzoni che sembrano più che altro esercizi di tecnica. Ascoltando alla
radio molte delle canzoni “popolari” che oggi vanno per la maggiore, mi
sorprendo a chiedermi - e a chiedere - se gli autori non stessero provando
gli strumenti invece che scrivendo una canzone, tanto le melodie sono
involute e difficili da ricordare. Soprattutto, trovo che ci sia una
generale, clamorosa mancanza di ispirazione. Anche dove c'è un ritornello
che si può ricordare, le parole raccontano storie che non rimangono
impresse, che si dimenticano appena la canzone è finita.
Temo che non si tratti solo di mie impressioni personali. Non credo sia
un caso il fatto che il panorama musicale abbondi oggi di “cover”, cioè di
rifacimenti di canzoni del passato. È forse un caso, per esempio, che
Baglioni stia riproponendo in questi giorni, sotto forma di una complessa
operazione commerciale, un successo di quasi quarant'anni fa come “Questo
piccolo grande amore”? È forse un caso che, quando ci si riunisce per
cantare insieme – in televisione lo vediamo di continuo –, si finisca
inevitabilmente per ritirar fuori i grandi successi del passato, gli
evergreen di Battisti, De André, Cocciante, De Gregori e compagnia bella?
No, non credo sia un caso. Credo piuttosto che siamo nel pieno di
un'epoca di transizione, in cui la musica risente della crisi generale di
valori, entusiasmo e creatività che attanaglia le società occidentali e
quella italiana in particolare. Abbiamo più tecnologia di quanta ce ne sia
mai stata in passato, abbiamo strumenti di comunicazione potentissimi ed
economici come YouTube, ma non abbiamo più molto da dire.
In questo panorama piuttosto desolante, la musica di Tullio Pizzorno
rappresenta a mio parere una piacevole e notevole eccezione. I suoi dischi
non sono operazioni commerciali, la sua musica non è influenzata, se non in
minima misura, dalle tendenze contemporanee. Ha sviluppato uno stile del
tutto personale, oserei dire atemporale, che ha raggiunto negli anni una
maturità che si può apprezzare pienamente nel modo naturale in cui le parole
delle sue canzoni si “sposano” con la melodia.
Sono testi che parlano invariabilmente d'amore, ma lo fanno senza
retorica e senza annoiare. Basta ascoltare alcune delle canzoni contenute
nell'ultimo disco, da “Quella donna” a “Mi innamoravo”, da “Dove non ti amo”
a “E poi parlammo di te”, per entrare nell'universo emotivo dell'autore. La
“lei” di queste canzoni è una donna che vive per sempre nella memoria, è uno
stato d'animo sospeso tra la nostalgia e i piccoli gesti della vita
quotidiana. Ma non c'è nelle canzoni di Tullio il rimpianto banale del
passato, che la musica leggera ha già riciclato in tutte le salse infinite
volte. C'è piuttosto l'indulgere consapevole ad un certo piacere della
malinconia (sì, anche la malinconia può essere un piacere...); si tratta di
un modo di sublimare i propri sentimenti, di assaporarli e di viverli nel
più umano e universale dei modi, che sfrutta appieno la forza della musica,
che è ad un tempo sfondo e protagonista di ogni canzone. C'è, per dirla in
breve, il piacere puro del ricordo. Sa accendere la scintilla
dell'esperienza universale, sfiorando la poesia, il protagonista di “E poi
parlammo di te”, quando racconta di «quel mio vivere uguale che poi mi ha
fatto diverso / del tuo sparire danzando sul corpo di un altro / E andava
bene lo stesso / innamorato di canzoni che non avevo mai sentito / Per
ricordare quei momenti che ora di te ho cancellato».
Ma qual è, in definitiva, la differenza tra una bella canzone d'amore ed
una non riuscita? Io credo che la differenza stia per buona parte nella
sincerità dell'ispirazione e, quindi, nella capacità della musica di
suscitare davvero nell'ascoltatore quei sentimenti e quelle emozioni che
l'autore intende, magari inconsciamente, evocare. Purtroppo l'ispirazione
non si vende al mercato. È invece una sorta di miracolo raro, un complesso
risultato che nasce dalle esperienze vissute, dalla maturità personale,
dalla capacità tecnica e culturale di fondere il proprio vissuto in un
testo, in una melodia e in un arrangiamento che, messi insieme, siano e
appaiano come una cosa sola e, soprattutto, una cosa che la gente possa
capire e amare.
Alcune canzoni di Tullio Pizzorno sono il frutto di questa rara e
meravigliosa condizione, che è l'ispirazione unita alla padronanza tecnica
del mezzo espressivo (le parole e la musica). Trovo perciò profondamente
ingiusto che la sua musica sia poco conosciuta in Italia. Sono convinto che
se le radio più ascoltate, ribellandosi almeno in parte alle logiche
perverse del mercato, cominciassero a mandare le sue canzoni, si creerebbe
nel pubblico degli ascoltatori un passaparola per averne “dosi” sempre
maggiori. E probabilmente quel pubblico comincerebbe ad aver voglia, piano
piano, di disintossicarsi dalle razioni di musica “triste” a cui è
quotidianamente sottoposto.
Michele Diodati
(michele.diodati@gmail.com)
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