‘O panariello
La umana ricchezza della vita dei vecchi cortili....
Articolo di Vincenzo del Giudice
La memoria è come una goccia d’olio buttata nell’acqua. Può scomparire per un
istante ma poi se ne torna su, sta lì, galleggia come uno sguardo su ciò che è
stato. Quella frase, appena letta ne “Il Salto dell’acciuga” di Nico Orengo, mi
tornava alla mente . Ero appena uscito a piedi per andare dal mio amico Lorenzo
che abita non lontano da me quando l’ho visto lì, in un angolo della strada,
sotto “o ponte ’e Sala”: “’o panariello” di vimini colore marrone,
intrecciato e consunto con il manico ammaccato e quasi divelto. Esso, "’o
panariello", si ergeva ancora maestoso e pieno di quella sua particolare
umiltà, mi sorrideva con antico affetto quasi a volermi dire: vedi non mi sono
dimenticato di te e volevo salutarti prima di andare via.
Mi sono avvicinato, l'ho raccolto ed ho iniziato a correre all'indietro: tornavo
al piccolo mondo antico della mia infanzia. Una miriade di ricordi mi si sono
parati davanti, le attese, le speranze, i lunghi attimi in cui "o panariello"
scendeva dal piccolo balcone posto sopra la grande porta di legno di casa, in
essa appena un tavolo, un letto ed un piccolo armadio, una stanza disadorna con
quel particolare odore di pulito che si avverte solo nelle umili abitazioni. A
quei tempi abitavo " ncopp’o Corso int’o palazzo e Ricciuti, di fronte ‘a
Gelateria Veneziana". L'androne del palazzo era enorme e la sua volta dai
grigi e concentrici giri m’incuteva timore ed, appena superato l’ingresso, due
piccole porte, poste l'una di fronte all'altra, portavano all'ingresso
secondario della Farmacia Ricciuti ed allo Studio Fotografico De Simone. Al
centro dell'androne, di fronte allo scalone dei piani superiori, una grande
nicchia che in altri tempi doveva accogliere una statua, che nella mia
immaginazione raffiguravo sempre come una donna nuda coi capelli raccolti sulla
nuca; poi, il cortile, un grande cortile, con il pavimento “’e vasul’e preta
lavica”, e ad un lato la fontana e tante porte. Da una di queste si accedeva
alla mia abitazione: una stanza, appena illuminata da una piccola finestra posta
sulla porta d'ingresso di legno, corroso dal tempo e di colore scuro, che
rimaneva quasi sempre aperta mentre la porta interna per metà di vetro, lasciava
intravedere solo le ombre che si muovevano nell'interno della casa . Al piano di
sopra abitava la famiglia del farmacista.
Allora era “l’epoca de’ pulpette” ed ogni domenica, dopo aver mangiato un
piatto ricolmo di pasta illuminata dal rosso sugo delle polpette, io e mia
sorella di appena cinque anni, appostati dietro i vetri, attendevamo con
trepidazione che " ‘o panariello, scennesse e tuzzuliasse ncopp’o vitro da’
porta”. Era il Canonico, il buon Canonico Nunzio Ricciuti, che "
tuzzuliava cu panariello appis’a na curdicella“. Uscivamo di corsa da casa e
ghermivamo "o panariello che, dundulianno dundulianno” manifestava tutta
la sua bontà: pieno di fette di dolce fatto in casa e tante altre leccornie, fra
cui spiccavano due profumati e rossi lecca-lecca, il tutto in un grosso piatto
colorato, come si usava allora. Con il piatto tra le mani e la testa rivolta su,
al balcone, ringraziavamo il Canonico che sorridente ci salutava con la mano a
mo’ di benedizione. Mia sorella mi sgambettava intorno felice mentre io guardavo
"’o panariello" che risaliva vuoto.
Sono trascorsi molti anni e spesso mi ritrovo a narrare questi episodi perché
sono certo che il ricordare le persone scomparse significa pregare per loro e
quando lo faccio un senso di pace mi prende e mi allontana da questa frenetica
vita odierna dove tutto è divenuto talmente veloce da annullare i rapporti
umani. Solo oggi comprendo quanta storia ci fosse “adderet’a nu panariello"
che ora giaceva lì, per terra . Mi sono chinato, l’ho preso e l’ho posto sui
rami di un albero pieno di gialli limoni.
Una storia questa, semplice, certamente puerile ma piena di simboli e di
(quella) solidarietà umana che ho avuto la fortuna di vivere (in tempi ormai
scomparsi).