Novembre: mese dedicato ai defunti
Tradizioni e leggende legate alla devozione dei defunti
Articolo di Alberto Virgulto
“Ogn’anno il due novembre, c’è l’usanza
Per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll’adda fa chesta creanza;
ognuno adda tenè chistu pensiero.”
(da “A livella” di Antonio de Curtis, in arte Totò)
A rappresentare una cultura che sopravvive da secoli, nel giorno dedicato ai
defunti, molti sono stati quelli che hanno avuto “chistu penziero” e sono
andati a far visita a coloro i quali hanno cessato la vita terrena e sono
sepolti in una quiete perenne che in noi mortali spesso suscita angoscia, paura
ed emozioni. Alla vista di un’immagine tombale, il passato e il presente si
fondono per dare vita ad un’armonica simbiosi e, nella memoria riaffiorano
fatti e personaggi lontani, in un viaggio surreale di grande suggestione.
Compromette questo delicato equilibrio di meditazione, con il ritorno alla
realtà, il de profundis, canto devozionale liturgico dedicato ai morti, tratto
dal salmo 130, eseguito a cappella senza l’ausilio di strumenti musicali, in
processione tra le tombe, dal Vescovo, dal Clero e dal Popolo credente. Altro
canto liturgico, ora in disuso, che incuteva timore e infondeva una profonda
tristezza ai fedeli, era il Libera me Domine, anch’esso eseguito a cappella
dall’Officiante, durante la novena dei morti, e dal Capitolo, collegio di
Canonici che, disposto in due file parallele accompagnava il defunto dalla
chiesa sino alle mura della città.
Libera me, Domine, de morte aeterna…
L’austerità delle celebrazioni liturgiche è per certi versi arricchita da una
serie di usi e credenze, attraverso le quali la tradizione popolare, sin dalle
età più remote, interpreta i sentimenti di una pietà religiosa di ogni uomo
verso i propri morti. Si pensa, ad esempio, che le anime siano apportatrici di
bene e di male al gruppo: ecco perché l’estinto viene lavato, unto, vestito
degli abiti e degli ornamenti migliori. Spesso col morto si seppelliscono le
cose a lui più care, e si è attenti alla veglia e alla preparazione del rito
funebre. In un passato recente alla famiglia del defunto si soleva portare,
abitualmente da parenti, compari o amici “stretti”, il “cuonzolo”, consistente
in un piatto di minestra calda, pesce o carne, mozzarella e vino, unitamente a
piatti, posate, bicchieri, tovaglioli e del caffè caldo, tutto accuratamente
deposto, per il trasporto, in grosse ceste di vimini. I familiari del defunto
manifestavano il proprio dolore, vestendosi di nero ed estraniandosi dalla vita
sociale.
Il lutto era più stretto per i parenti più vicini, determinato anche dal tipo di morte, dall’età, dal censo, dal rango o dal sesso dei defunti. Nella nostra comunità e nel meridione in genere, non è raro vedere su di un balcone o sul davanzale di una finestra un cero acceso, la notte tra l’uno e il due di novembre, che serviva a dar luce al passaggio della processione dei morti. . E’ credenza che in quella notte, come scrive Giuseppe Mercurio in “Echi e Sorrisi in terra di Campania”: " le anime dei defunti rompono la pace ed il silenzio delle tombe e si avviano in Terra Santa, per rendere omaggio al Sepolcro di Gesù. Ogni spirito" – si racconta – "lasciando il Cimitero, prosegue alla volta del paese e passa per la casa dei parenti. Qui, dove i familiari hanno già preparato l’occorrente, il defunto provvede a ripulirsi: poi indossa una camicia bianca di bucato, prende un cero, che dovrà illuminargli le vie del pellegrinaggio, e s’allontana per disporsi in processione con gli altri morti del luogo. Così riuniti, i defunti visitano le chiese, ove sono celebrati i riti delle commemorazioni funebri, e dopo, quasi purificati dalle benedizioni dai sacerdoti e dalle lacrime del popolo, iniziano il loro viaggio in Palestina. La notte dell’Avvento i morti tornano, ma non ripassano nelle famiglie, si radunano in chiesa, smettono la camicia – che non è più linda e che i parenti raccolgono per ripulirla e serbarla ad anno nuovo – e riprendono la vita nelle tombe…"