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(pubblicato il 15 Mag. 2006). Leggere il ricordo di Lorenzo Di Donato sui Campetti, mi ha fatto trovare con
indescrivibile gioia una sintonia: l’amore per la nostra città, nato e
alimentato da una cascata di ricordi. Poi le reminiscenze dei miei genitori e
familiari in genere si sono sommate alle mie. Grazie, Lorenzo.
Anch’io, nato pochissimi anni dopo la guerra, classe 1947, sono tornato a
rivisitare con la memoria quello spazio erboso sistemato in varie occasioni, ma
mai con una qualificazione tale da non far sorgere polemiche al riguardo.
Ricordo quando, da piccolo, la domenica andavo con mio padre e mia madre al Bar
Marziale, ubicato a palazzo Coppa. Stava di fronte all’ala bombardata del
Distretto militare, a pochi metri dove si trova il bar che porta oggi lo stesso
nome. Mio padre mi parlava del tremendo bombardamento del 1943, che egli aveva
vissuto in prima persona, proprio ai Campetti. Stava andando, con il carretto
trainato dall’asino, a consegnare le pagnotte di pane destinate al comando
dell’XI artiglieria. Sulle ginocchia aveva mio fratello Virgilio, allora aveva
due anni. Suonò la sirena, riuscì a salvarsi per un pelo: l’asino correva come
il vento.
Solo dopo che mi sono sposato, ho potuto finalmente vedere ricostruita l’ala
bombardata dello storico manufatto militare. Speriamo, incrociando
scaramanticamente le dita, che non occorrano analoghi tempi biblici per vedere
rimossa l’orrida recinzione dei Campetti; e questo, al di là di ciò che
potrebbe toccarci di vedere realizzato, in barba alle vibrate proteste degli
ambientalisti e non. Più presto fu ricostruita la stazione. Qualche anno dopo
sorsero le palazzine Incis, nell’area dove c’era - tra l’altro - l’albergo “La
bella Napoli”. Se conosco questo nome, lo debbo a mio nonno - Virgilio
Candalino - che me ne parlava. Ora nei giardinetti delle palazzine sono
rimasti, a testimonianza della tragica giornata, alcuni spezzoni di muri. In
prossimità della stazione sorgeva il gasometro. Non fu ricostruito, anche
perché - nell’attesa - si stava imponendo il petrolio. Rimasero per anni sul
posto i frammenti di carbone, sparpagliati per vasto raggio dalle bombe, che
avevano colpito anche Palazzo Reale. Anch’io ho giocato ai campetti qualche
volta. Quasi ogni giorno andavo alla Campagnella, più vicina a via S. Carlo e
via Colombo, dove ho abitato. Conservo ancora una fotografia che mi ritrae con
l’amico Franco Cepollaro, al lato di via Ferrara. Sul retro è riportata la data
dello scatto: 15 novembre 1964.
Ai Campetti era una festa quando arrivavano le giostre. Solo da una certa età
mi è stato concesso andarvi da solo. Allora si andava sempre con il fratello
maggiore, anche nelle sale cinematografiche. Specialmente di sera, si aggirava
in zona gente poco raccomandabile, di sesso maschile e femminile, incoraggiata
in squallidi mercimoni anche dalla carente illuminazione. Meno male che il
commissario prefettizio De Marinis - se ben ricordo il cognome - provvide a far
installare i lampioni, che ancora oggi resistono, tranne uno, ed hanno visto
solo da qualche anno il soccorso, comunque tardivo e imperfetto - ai fini di
una degna illuminazione della zona - dei fari sistemati da qualche anno su una
facciata del Distretto militare.
Mi ha fatto allargare il cuore leggere cognomi rimasti “storici” e “mitici”, e
non solo per me: Mazzitelli, Melchionna, Tomassi. Lucio Mazzitelli lo ricordo
meglio di tutti. Melchionna e Tomassi erano rimasti invece sepolti, fino a
qualche giorno fa, nel “porto delle nebbie”. Quando ero un ragazzo, avevano più
anni di me, li sentivo nominare, ma fisicamente non li ricordo troppo. Rammento
bene, invece, Lucio Mazzitelli. Erano amici dei miei zii, lo ricordo bene.
Anche i fratelli Villano, miei zii materni, giocavano a pallone. Mio zio
Franco, questore in pensione e residente da una quarantina d’anni a Varese,
saltava da adolescente il cancello dei Salesiani a via Roma e andava a giocare
in una delle tante campagne allora circostanti Andava anche ai Campetti.
Durante l’ultima guerra era stato tenente degli alpini in Croazia. Dopo l’8
settembre aveva raggiunto Caserta tra mille avventure: ai miei occhi di
ragazzo, e anche poi di uomo, questo fatto mi è stato sempre davanti agli occhi
con i “colori” dell’epica. Io l’ho sempre guardato con ammirazione. Consumò le
scarpe e anche i soldi che vi teneva nascosti. Ci ha lasciati da pochi giorni.
Amava tantissimo la sua Caserta. Oggi guarderà dall’alto, ne sono quasi certo,
i campetti. Mio zio Mario era anch’egli un buon giocatore di pallone. Lo
chiamavano “Gabetto”, come il giocatore del mitico Torino, perito con l’intera
squadra nella sciagura di Superga. Ero già sposato, quando sentii un signore
che salutò zio Mario, chiamandolo ancora “Gabetto”. Mio zio Roberto prometteva
in famiglia meglio di tutti in campo calcistico, giocava nella Casertana. Molti
lo chiamano ancora oggi “capitano”. Poi i familiari lo fecero smettere, perché
doveva pensare al suo avvenire. Oggi vive a Firenze, ma ritorna spessissimo a
Caserta e ai suoi amati Campetti.
Ricordi miei, che al lettore probabilmente interesseranno non più di tanto, ma
che potrebbero suscitare - come capitato a me, leggendo l’interevento di
Lorenzo - una struggente casata di ricordi. Saranno ricordi legati ad anni
diversi dai miei, ma che essi terranno gelosamente custoditi. Così come faccio
io, come fa l’amico Lorenzo, come faranno sicuramente quanti (dal cielo alcuni,
ahime!) - da ragazzi - si ritrovavano sull’erboso spiazzo dei nostri amatissimi
Campetti. |
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Salvatore Candalino e Franco Cepollaro
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