Massimo Cacciari su Umanesimo tragico

Caserta - 14 Ottobre 2005

Articolo e foto di Arianna Quarantotto


Si è svolto venerdì sera al Duomo di Caserta l’incontro con Massimo Cacciari e Toni Servillo dal titolo “Umanesimo tragico”. Un discorso appassionato, profondo, quello di Cacciari che per la sua riflessione prende spunto da quattro testi letti dall’attore casertano: il canto XXVI dell’Inferno; il De vita solitaria di Petrarca; la Lettera al Vettori di Machiavelli; l’Infinito di Leopardi.
La chiesa è gremita: il mito di Ulisse seduce il pubblico così come aveva sedotto Dante che lo vuole eroe ingannatore. Dopo l’assedio di Troia, l’Ulisse dantesco prosegue con la sua ciurma verso una meta indefinita per compiere il “folle volo”. Rinuncia al “debito amore lo qual dovea Penelope far lieta” e seduce, nel senso etimologico del termine, cioè porta fuori, “per l’alto mare aperto” i suoi uomini, ingannandoli e finendo per ingannare se stesso. La curiositas, l’amore per la virtù e la conoscenza , quella delle cose del mondo, del sapere, in quanto amore isolato da altri amori, diviene energia che conduce al naufragio. Eppure Dante è commosso dalla figura del peccatore: riconosce infatti in lui un’anima nobile, seppur divorata dall’inquietudine del conoscere. E quest’inquietudine è la stessa che tormenta Petrarca, precursore della duplice anima dell’umanesimo: quella che si esprime nel “volo ordinato”, e nel “folle volo”. L’anima nobile per Petrarca non può trovare quiete: il “perturbato cor” petrarchesco non ha né un fine né un dove al suo vagare incessante, è sempre ad un bivio tra due opposti, come sarà l’homo duplex dell’Umanesimo.
L’amore per la virtus e la conoscenza spinge Machiavelli a leggere i classici e a far esperienza della realtà attraverso i testi, a dialogare con gli autori del passato. Il testo gli interessa in quanto testimonianza di esperienza vissuta; l’esilio a S. Casciano non è solitudine contemplativa ma è progettare le cose pensate: “cogitata facere”. Questa è la virtus che celebra l’Umanesimo.
Tipico uomo dell’umanesimo è Leon Battista Alberti, uomo universale, architetto, pittore, latinista, filosofo: è lui – dice Cacciari- il vero testimone dell’Umanesimo tragico. Nei “Libri della famiglia” - spiega Cacciari - Alberti scrive che nessuna cosa è più faticosa del vivere e che la vita occorre affrontala “con le mani e con i piedi e con ogni industria e consiglio”. La virtus dunque qui non è conoscenza ma timbro della volontà. Anche l’Umanesimo dell’Alberti non è solo di tipo contemplativo: la virtù serve a navigare nel gran mare dell’esistenza, ma questa virtù che pure aiuta a vivere ha un duplice potere: serve a costruire e a distruggere. Nel De Pictura, pur facendo l’esaltazione degli antichi, Alberti esalta l’arte contemporanea e ammira la cupola del Brunelleschi; in risposta al De Architectura di Vitruvio, egli scrive il “De re aedificatoria” in cui non insiste sugli aspetti teorici ma sulla concreta applicazione di essi, non a caso sceglie il titolo latino che enfatizza la concretezza con il sostantivo“res”. L’amore per la latinitas, che contraddistingue l’Umanesimo, è però anche motivo di contraddittorietà in quanto il passato affascina, seduce ma frena in qualche modo il processo avanti. Duplicità dunque, ancora una volta amore per il passato e tensione verso il futuro, inquietudine questa che però porta alla creazione. Il “perturbato cor” di cui parlava Petrarca crea e distrugge perché non può esserci creazione senza turbamento. E qui sta il tragico, perché la virtù che l’Umanesimo celebra non potrà mai superare il dominio del fato, della fortuna; l’uomo dell’Umanesimo non sarà mai veramente “faber fortunae suae”, mai padrone del suo destino. Questa consapevolezza di fragilità di fronte alla natura emerge anche nella famosa “Oratio de hominis dignitate” di Pico della Mirandola che descrive l’uomo come animale inquieto e impaziente, come un’immagine incompiuta, un essere “possibile” che non ha sede: solo la fede può mettere fine a quest’inquietudine e questo spiega perché, come tanti altri, anche lui si facesse seguace del Savonarola.
Ma l’opera che massacra la visione teleologica dell’uomo- continua Cacciari- è il “Momus” dell’Alberti. In essa tutti i miti dell’uomo sono smantellati: Alberti è consapevole che è una stupida pretesa quella di essere “fabbro del proprio destino”: Momus è camaleontico, assume tutte le maschere, perchè l’uomo è una maschera e artificio sono le sue opere. E’ un essere perturbato e tuttavia non lo si può guarire dalla sua insania, perché altrimenti si ucciderebbero le sue virtù.
Bisogna dunque combinare i due opposti senza annullarli. L’emblema dell’Alberti è un occhio alato, fiammeggiante, sveglio in aperta polemica contro l’ozio. L’occhio dell’Umanesimo che vede tutto e vola sul mondo, immagine dell’onnipotenza divina, vede che l’uomo è metamorfosi, che è “homo homini pestis”. L’obiettivo dell’occhio alato è il fenomeno, la concretezza: nel Momus Alberti è ironico nei confronti di ogni speculazione astratta. Solo il pittore è davvero artista, ed è vero filosofo, perché dipinge la realtà così com’è, in prospettiva, comprende cioè la realtà effettuale delle cose, e progetta quelle future come farà Machiavelli.
Una filosofia disincantata allora quella dell’Umanesimo e perciò tragica, chiude Cacciari, una filosofia che ha al centro della sua speculazione l’ambiguità e irriducibili contraddittorietà dell’uomo. Il culmine di questa filosofia umanistica è nelle “Operette morali” di Leopardi.
 

Tony Servillo impegnato nelle letture

 

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