Giugno:
La Mietitura
Articolo di Alberto Virgulto |
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La zona collinare e la fertilissima "Piana del Garigliano", particolarmente
apprezzata per quanto riguarda l’olio, il vino e il grano, noti già nell'epoca
romana rendono Sessa A. uno dei territori più interessanti di Terra di Lavoro.
In un recente passato, alle prime luci dell’alba, quando i primi raggi del sole
squarciavano le tenebrose ombre della notte un pullulare di persone usavano
radunarsi nella piazza centrale del paese dove avevano luogo, quasi sempre con
soddisfazione, gli approcci, poi le trattative tra i ‘caporali’e i mietitori.
In questo periodo anche il fabbro aveva il suo da fare, doveva limare le falci
arrugginite dal riposo di un anno. Interrompeva il vociare la rauca nota della
‘tufa’ che segnalava la partenza peri i campi e dare inizio ad una faticosa
giornata di mietitura, tutti in fila affrontavano
il campo da mietere. Per alleviare le fatiche, proteggersi dal cocente sole di
Giugno, e ripararsi dalla polvere e dai moscerini tra la nuca e il cappello
usavano portare un fazzoletto colorato che all’occorrenza mettevano sulla bocca
Si dissetavano con l’acqua e il vino tenuto al fresco dal padrone, conservato
in recipienti di terracotta ( ro’ mmummolo) provenienti dalla vicina frazione
di Cascano. Nell’aria si sentiva l’atmosfera dell’estate oramai sopraggiunta,
il canto dei grilli e delle cicale in contrasto con la limpidezza del cielo blu
contro l’elemento arancione del bronzo dorato
del grano, annunciava un’altra giornata di intensa fatica e nei campi per
alleviare le sofferenze della calura estiva risuonavano le roche voci di ‘a
mète, a mète‘ una particolare canzone di esultanza per le dovizie largite da
Cerere bionda
A mète, a mète, ca’ è venuto junno
Tutti ri metituri a mète vanno!
Quanno ru metitore jette a mète
Risse a la sua signora: ‘resta ‘npace’
Chella ri risse ‘lassa i lu mète,
che se lu mète chi l’ha semmenato,
isso rispunnette ‘schiatta e crepa’
ca, si lu mète, buono so’ pagato!
Durante il lavoro venivano intonati canti dalla cadenza lenta, che scandivano i
movimenti della falce e che accompagnavano quasi tutta la giornata di lavoro.
Ecco alcune strofe:
Ecco che è venuto santo Junno
Tutti ri metituri a mète vanno.
Padrone si vuo’ metere lu ‘rano
Mitt’a coce carne e maccaruni.
Si nun vuo’ coce carne e maccaruni
Piglia la serreccia e mietitello tune.
Questi con la destra tenevano la falce, con la mano sinistra reggevano il grano
mietuto, che legavano con lo stesso grano, avvolgendolo intorno,
successivamente lo depositavano per terra, uno sopra l’altro, li legavano
insieme, sempre con alcuni steli delle stesse spighe, e formavano un covone,
che veniva deposto in piedi, con le spighe rivolte verso l’alto.
A sera, terminata la lunga giornata di lavoro, si dava inizio sull’aia a canti
e balli.
Anche se dura era stata la giornata meritava un’espressione canora di gioia.
Il raccolto era ormai sicuro e le aie si vestivano a festa.
Venivano accennati canti di passioni, canti dove l'amore era presentato con
espressioni dolci e soavi L'amore era amore, l'odio: odio; il sesso: sesso. Non
mancavano neppure le arie a ‘dispietto’, e canti che parlavano della donna con
espressioni ora carezzevoli, ora dolorose e tragiche, ed
erano rivolti principalmente alla Mamma Celeste.
Chi, durante la mietitura, si imbatteva nel secco ramo di olivo, (la Palma
Benedetta a Pasqua dal Padrone del fondo), segno di grazia e di abbondanza,
aveva diritto ad una ricompensa e al suo rinvenimento tutti si fermavano e
applaudivano al ritrovamento.
La mietitura del grano si configurava quindi come un momento di forte
socializzazione. |
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