Francesco, nipotino vivace di mio fratello Umberto, va a tirare calci al
pallone tra i “pulcini” del Milan. Ha le sue belle scarpette per giocare al
calcio, i calzettoni ben lavati, il pantaloncino e la maglietta puliti e
stirati, la tuta firmata; la mamma o il papà che, se non c’è il pulmino della
società, l’accompagnano in auto al campo sportivo e poi lo riaccompagnano a
casa al termine dell’allenamento o partitella, caldo di doccia.
Francesco ha chiesto a Umberto: ”Nonno, anche tu giocavi a pallone quando eri
piccolo?”.
E Umberto ha incominciato a narrare al nipotino Francesco ….. Ma , accortosi
che il mondo della sua infanzia é così lontano da quello di suo nipote, che lo
ascoltava come si ascolta uno che racconta una favola, ha chiesto il mio aiuto.
E’ Natale e quindi posso raccontare a Francesco della nostra squadra di calcio,
la favola dei “The Young Men”.
Tanto tempo fa, caro Francesco, io e Umberto pensammo di costituire una squadra
di pallone con i nostri più cari amici di gioco. Dopo lunghe discussioni tra
noi tutti, la scelta del nome cadde su “The Young Men”, a testimonianza che già
allora noi ragazzini eravamo inglesizzati.
Facemmo anche i tesserini, di color rosa, che io riempii nelle varie parti con
la macchina da scrivere che mio padre usava al Distretto Militare, dove era
impiegato. Chi tra noi l’aveva, ci incollò anche la propria foto.
Si andava a giocare di nascosto dei genitori nella “campagnella” adiacente
all’area dello Stadio Comunale Pinto, nell’area attualmente occupata in parte
dalla Scuola Media Statale “de Amicis”. Le dimensioni del campo s’intuivano ad
occhio: la parte dove l’erba era stata consumata a forza di correrci sopra =
campo. Le porte s’individuavano facilmente dal mucchio di borse e abiti che
segnalavano i pali e ne facevano le veci.
Durante le partite le discussioni
sulle palle alte non parate erano infinite: erano dentro o fuori a seconda
delle capacità dialettiche e della forza fisica dei contendenti. Ma le
discussioni nascevano anche per le punizioni, i corner, i falli laterali, per
non parlare dei rigori, in quanto, naturalmente!, non c’era l’arbitro e se
qualche sventurato accettava di farlo veniva sempre e comunque ferocemente
contestato. Noi, noi tutti eravamo la moviola in campo!
Come dimenticare la testardaggine di Mario Perna, i distinguo di Giacomo de
Dato, la voglia di mettere pace di Gigino Merrone, la bonomia di Nicola Sammali
in queste accese discussioni? Comunque la voglia di giocare ci faceva sempre
arrivare ad una conclusione della discussione, tranne poi riaprire il discorso
a fine partita da parte degli sconfitti per trovare attenuanti e/o motivi di
rivincita nella prossima partita.
Ma ogni motivo era buono per far nascere una discussione o una contestazione.
Io, capitano dei "The Young Men", ne subivo quasi sempre una all’inizio dei
nostri “allenamenti”, e specialmente da mio fratello Umberto, perché –
pazzo! -
volevo fare iniziare l’allenamento con i giri di campo il cui numero usciva
fuori dal patteggiamento. Non so quanti giri di quell’approssimativo campo si
facevano e, debbo confessarlo, non so perché li volevo far fare. Sapevo solo
che, quando i giocatori della Casertana si allenavano, facevano i giri di
campo! Ed anche noi dovevamo farli!
Nostra avversaria privilegiata era la squadra “Tomassi”, più “ricca” della
nostra perché aveva un pallone buono! E già questo era un buon motivo per
giocarci contro, perché noi avevamo una “cosa” di cuoio spellato, scucito in
varie parti, con bozze capaci di strapparti anche il cuoio capelluto se la
prendevi di striscio, di colore indefinito, con la camera d’aria all’interno
che aveva più rattoppi del mantello di san Martino. Nel corso della partita,
quasi sempre questa specie di pallone si apriva come un melograno e lasciava
uscire fuori la camera d’aria con conseguente interruzione del gioco, che, a
volte, segnava la fine della partita o dell’allenamento.
Perciò la “Tomassi” era importante. Con questa squadra, quando giocavamo, si
usava un tempo il nostro pallone e l’altro tempo quello loro. Quando usavamo il
nostro quasi sempre eravamo costretti a riprendere il loro, a causa della
impossibilità di utilizzare il nostro, per il motivo già prima esposto.
Resta da dire del vestiario. Basta guardare la foto: cosa abbiamo da invidiare
all’armata Brancaleone? Umberto, portiere, s’imbottiva il pantaloncino
cucendoci internamente vecchi pantaloncini e si teneva su le ginocchiere con
funicelle varie. Io, poi, avevo un paio di scarpette per giocare a calcio di
settima mano. La scarpetta destra aveva la punta floscia e, nel plantare, una
lamina d’acciaio spezzata che fuoriusciva dalla scarpa proprio sotto la pianta
del mio piede. Perciò io, solo e sempre destro, giocavo solo di piatto, perché
se tentavo di giocare di punta, la lamina mi segava ancora di più il piede.
Ancora oggi, quando me lo guardo, mi meraviglio di averlo ancora, malconcio e
sanguinante com’era dopo ogni partita!
Se qualcuno di noi si faceva qualche ferita -per fortuna nessuno di noi ebbe
mai grossi infortuni- questa veniva medicata passandoci sopra un dito imbevuto
… di saliva e poi la si fasciava con un fazzoletto. Solo più tardi, se si
incontrava una fontanella lungo la strada per rientrare a casa, si procedeva a
lavare la ferita. E a casa, zitti! Altrimenti avevamo il resto dai nostri
genitori.
Poi ci facemmo più grandi ed i nostri interessi cambiarono. La “The Young Men”
sparì di conseguenza. Ma noi calciatori siamo rimasti sempre amici, tutti.
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