Tradizioni popolari di Terra di Lavoro: Quaresima
di Gianni Gugliotta*

Tra le Ceneri del martedì grasso e la Pasqua trascorrono i quaranta giorni della Quaresima(1) che, come il carnevale, viene raffigurata da un fantoccio, stavolta però in gramaglie adorno di collane e frutta secca. E non solo così. In alcuni centri la Quaresima viene anche identificata con la vedova di Carnevale, la vecchietta affranta dal dolore che si dispera e piange al suo funerale.

Questi due personaggi, immaginati spesso come marito e moglie, hanno ispirato fin dal medioevo autentici contrasti poetici. Tale produzione letteraria (2), presente in varie forme (poemetto narrativo, contrasto limitato ai due personaggi e rappresentazione vera e propria), si diffuse ampiamente nei paesi dell'Europa occidentale fino al XVII secolo, per poi attenuarsi senza mai comunque spegnersi del tutto.

Tra le più recenti testimonianze va segnalata quella del Borrelli per la zona aurunca: "Altra rappresentazione tradizionale era, un tempo, quella con cui esaltavasi la vittoria della Quaresima su Carnevale. Protagonisti della buffa tragediola erano due antitetici fantocci: l'uno grasso e rubicondo, con enorme ventraia; l'altro in vesti donnesche, allampato, stecchito, spettrale. Si facevano essi muovere in senso opposto, il primo dall'interno del villaggio verso l'esterno, l'altro dalla periferia verso il centro. All'altezza delle prime case, un terzo personaggio, vivo questa volta - la Morte - aspettava al varco Carnevale per accopparlo e finirlo con la sua inesorabile falce, mentre Quaresima faceva il suo trionfale ingresso nell'abitato. Ciò avveniva l'ultimo giorno del Carnevale, quando con schiamazzi e baldoria e funebri nenie si dava al morto l'estremo vale"3.

I quaranta giorni della Quaresima, considerati dai più come periodo di penitenza dopo la follia collettiva del carnevale e come tempo di rinnovamento spirituale per preparare l'animo alla celebrazione della Pasqua, sono invece collegati da alcuni studiosi, come il Frazer, a vari riti precristiani.

"Dioniso non è la sola divinità greca la cui tragica storia e il cui rituale sembrino riflettere il decadere e risorgere della vegetazione. In altra forma e con diversa applicazione la vecchia storia ricompare nel mito di Demetra e Persefone. In sostanza, il loro mito è identico a quello siriaco di Afrodite (Astarte) e di Adone, a quello frigio di Cibele e di Attis, a quello egizio d'Iside e di Osiride. Nella favola greca, come in quelle corrispondenti asiatiche ed egiziane, troviamo una dea che piange la morte di un suo amato il quale personifica la vegetazione e più specialmente il grano, che muore d'inverno per rivivere a primavera; solo, mentre l'immaginazione orientale si raffigurava il perduto amato come un morto amante o un morto marito lamentato dalla sua amante o dalla sua sposa, la fantasia greca incorporava la stessa idea nella più tenera e pura forma di una figlia morta e pianta dalla sua madre addolorata. Il più antico documento letterario che narri il mito di Demetra e di Persefone è il bello inno omerico a Demetra, che la critica attribuisce al secolo VII a.C. (...) La giovinetta Persefone, dice il racconto, stava cogliendo rose e gigli, crochi e violette, giacinti e narcisi in un fresco prato, quando a un tratto la terra si spalancò e Plutone, re dei morti, uscendo fuor dall'abisso, la rapì sul suo carro d'oro per farla sua sposa e regina del tenebroso mondo sotterraneo. La dolente sua madre, Demetra, con le bionde trecce velate in un nero manto di lutto, la cercò per terra e per mare e, saputo dal sole la sorte della figlia, lasciò sdegnata gli dèi e si ritirò ad abitare ad Eleusi. (...) Irata per la sua perdita, la dea non permise ai semi di crescere sulla terra, ma li tenne nascosti dentro il terreno e fece voto di non mettere mai più piede sull'Olimpo e di non far più germogliare il grano finchè non le fosse stata restituita sua figlia. Invano i buoi trascinavano gli aratri su e giù per i campi. Invano il seminatore gettava le sementi nei bruni solchi. Nulla spuntò dalla terra sgretolata e riarsa. (...) Il genere umano sarebbe morto di fame e gli dèi sarebbero stati privi di sacrifici dovuti loro se Zeus, allarmato, non avesse comandato a Plutone di lasciare la preda e ridar la sposa Persefone a sua madre Demetra. Il torvo re dei morti sorrise e obbedì, ma prima di rimandare ai regni dell'aria sopra il carro d'oro la sua regina le diede da mangiare i semi di una melagrana, ciò che ne assicurava il ritorno. Ma Zeus stipulò che da allora in poi Persefone avrebbe passato due terzi di ciascun anno con la madre e gli dèi del mondo superno e un terzo con suo marito nell'Ade, da cui doveva tornare anno per anno quando la terra s'inghirlandava dei primi fiori di primavera. Felice allora la figlia ritornò alla luce del sole; felice la madre la rivide e l'abbracciò; e nella sua gioia fece spuntare il grano dalle zolle degli aratri campi e tutta la vasta terra fu piena di foglie e di fiori"4.

Il Frazer dimostra che la figlia era la personificazione del giovane frumento dell'anno nuovo e la dea madre del raccolto dell'anno precedente. Il periodo quaresimale potrebbe quindi corrispondere a quello celebrato dalle donne greche che rappresentavano con riti funebri, lamentazioni e astinenze varie, la discesa di Persefone nel mondo sotterraneo e il dolore di Demetra che poi veniva festeggiata al ritorno sulla terra.

 

Durante i quaranta giorni tra il carnevale e la Pasqua c'è l'usanza, tuttora viva e osservata persino nello stesso centro storico di Caserta, di appendere alle finestre o ad una corda tesa sulla strada tra due case dirimpetto un fantoccio di non grandi dimensioni, vestito di nero e raffigurante la Quaresima. Sotto l'ampia veste a campana, tra le gambe divaricate, gli si fa pendere un agrume o una patata in cui sono infilzate sette penne che vengono via via tolte al passare delle settimane precedenti la Pasqua.

Il frutto (se è un agrume si preferiscono di solito un limone o un'arancia) ha un significato magico-sessuale. Che lo si associ spesso al sesso lo conferma il fatto che il primo tentativo di seduzione di cui si ha notizia avvenne per il tramite di una mela; che nel nostro dialetto con alcuni frutti si indicano anche gli organi sessuali femminili e maschili (fico, banana, ecc.); che anticamente in alcune feste si vendevano le limuncelle (grossi limoni) con le quali i ragazzi dichiaravano il loro amore ad una ragazza; che nelle cosiddette voci intonate dai venditori ambulanti ricorrono continue allusioni sessuali ed erotiche. E si potrebbe ancora continuare.

Non va dimenticato poi che un frutto, solitamente un limone, è spesso impiegato per le fatture d'amore. In questi casi lo si trafigge con spilli e fili di ferro per affrettarne il deperimento e dunque per accrescere gradualmente le pene del cuore di chi s'intende colpire.

E' per questo che le sette penne conficcate nell'agrume del fantoccio sembrano anch'esse una fattura, un divieto, un'astinenza insomma tipica della Quaresima.

 

*Gianni Gugliotta, è da anni cultore delle tradizioni popolari casertane, autore e regista teatrale, collaboratore di R. De Simone.


Note

1 Nell'anno liturgico prende questo nome un periodo di quaranta giorni, dal mercoledì delle Ceneri al Sabato Santo, dedicato all'astinenza e al digiuno osservati da Gesù prima d'iniziare il suo ministero. Se ne ha notizia fin dal Concilio di Nicea (325).

In realtà sono 46 giorni poichè alle 6 settimane che andavano dalla prima di Quaresima al Sabato Santo, furono aggiunti 4 giorni per far sì che, sottraendo le domeniche (in cui non si digiuna), i giorni di astinenza restassero quaranta. Ma il numero complessivo variò anche secondo le diverse Chiese, come ad esempio nel caso di quella ambrosiana che fa coincidere l'inizio della Quaresima col lunedì successivo al giorno delle Ceneri.

 

2 Intorno alla rappresentazione si vedano: V. DE BARTHOLOMAEIS, LAUDE DRAMMATICHE E RAPPRESENTAZIONI SACRE, Le Monnier, Firenze, 1943 (vol. III) - G. AMALFI, EL CONTRASTO DE CARNASCIALE ET DE QUARESIMA, Napoli, 1890 - IL TEATRO ITALIANO (tomo I), a cura di E. FACCIOLI, Einaudi, Torino, 1975 - A. D'ANCONA, ORIGINI DEL TEATRO ITALIANO, Loescher, Torino, 1891 (vol. I) - P. TOSCHI, op. cit.

 

3 N. BORRELLI, TRADIZIONI AURUNCHE, Collana Minturnese, Roma, 1937.

 

4 J. G. FRAZER, IL RAMO D'ORO, Boringhieri, Torino, 1973.


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