Tra
le Ceneri del martedì grasso e la Pasqua trascorrono
i quaranta giorni della Quaresima(1) che, come il carnevale, viene
raffigurata da un fantoccio, stavolta però in gramaglie adorno di collane
e frutta secca. E non solo così. In alcuni centri la Quaresima viene
anche identificata con la vedova di Carnevale, la vecchietta affranta dal
dolore che si dispera e piange al suo funerale.
Questi
due personaggi, immaginati spesso come marito e moglie, hanno ispirato fin
dal medioevo autentici contrasti poetici. Tale produzione letteraria (2),
presente in varie forme (poemetto narrativo, contrasto limitato ai due
personaggi e rappresentazione vera e propria), si diffuse ampiamente nei
paesi dell'Europa occidentale fino al XVII secolo, per poi attenuarsi
senza mai comunque spegnersi del tutto.
Tra
le più recenti testimonianze va segnalata quella del Borrelli per la zona
aurunca: "Altra rappresentazione tradizionale era, un tempo,
quella con cui esaltavasi la vittoria della Quaresima su Carnevale.
Protagonisti della buffa tragediola erano due antitetici fantocci: l'uno
grasso e rubicondo, con enorme ventraia; l'altro in vesti donnesche,
allampato, stecchito, spettrale. Si facevano essi muovere in senso
opposto, il primo dall'interno del villaggio verso l'esterno, l'altro
dalla periferia verso il centro. All'altezza delle prime case, un terzo
personaggio, vivo questa volta - la Morte - aspettava al varco Carnevale
per accopparlo e finirlo con la sua inesorabile falce, mentre Quaresima
faceva il suo trionfale ingresso nell'abitato. Ciò avveniva l'ultimo
giorno del Carnevale, quando con schiamazzi e baldoria e funebri nenie si
dava al morto l'estremo vale"3.
I
quaranta giorni della Quaresima, considerati dai più come periodo di
penitenza dopo la follia collettiva del carnevale e come tempo di
rinnovamento spirituale per preparare l'animo alla celebrazione della
Pasqua, sono invece collegati da alcuni studiosi, come il Frazer, a vari riti
precristiani.
"Dioniso
non è la sola divinità greca la cui tragica storia e il cui rituale
sembrino riflettere il decadere e risorgere della vegetazione. In altra
forma e con diversa applicazione la vecchia storia ricompare nel mito di Demetra
e Persefone. In sostanza, il loro mito è identico a quello siriaco
di Afrodite (Astarte) e di Adone, a quello frigio di Cibele e di Attis, a
quello egizio d'Iside e di Osiride. Nella favola greca, come in quelle
corrispondenti asiatiche ed egiziane, troviamo una dea che piange la morte
di un suo amato il quale personifica la vegetazione e più specialmente il
grano, che muore d'inverno per rivivere a primavera; solo, mentre
l'immaginazione orientale si raffigurava il perduto amato come un morto
amante o un morto marito lamentato dalla sua amante o dalla sua sposa, la
fantasia greca incorporava la stessa idea nella più tenera e pura forma
di una figlia morta e pianta dalla sua madre addolorata. Il più antico
documento letterario che narri il mito di Demetra e di Persefone è il
bello inno omerico a Demetra, che la critica attribuisce al secolo VII
a.C. (...) La giovinetta Persefone, dice il racconto, stava cogliendo rose
e gigli, crochi e violette, giacinti e narcisi in un fresco prato, quando
a un tratto la terra si spalancò e Plutone, re dei morti, uscendo fuor
dall'abisso, la rapì sul suo carro d'oro per farla sua sposa e regina del
tenebroso mondo sotterraneo. La dolente sua madre, Demetra, con le bionde
trecce velate in un nero manto di lutto, la cercò per terra e per mare e,
saputo dal sole la sorte della figlia, lasciò sdegnata gli dèi e si
ritirò ad abitare ad Eleusi. (...) Irata per la sua perdita, la dea non
permise ai semi di crescere sulla terra, ma li tenne nascosti dentro il
terreno e fece voto di non mettere mai più piede sull'Olimpo e di non far
più germogliare il grano finchè non le fosse stata restituita sua
figlia. Invano i buoi trascinavano gli aratri su e giù per i campi.
Invano il seminatore gettava le sementi nei bruni solchi. Nulla spuntò
dalla terra sgretolata e riarsa. (...) Il genere umano sarebbe morto di
fame e gli dèi sarebbero stati privi di sacrifici dovuti loro se Zeus,
allarmato, non avesse comandato a Plutone di lasciare la preda e ridar la
sposa Persefone a sua madre Demetra. Il torvo re dei morti sorrise e
obbedì, ma prima di rimandare ai regni dell'aria sopra il carro d'oro la
sua regina le diede da mangiare i semi di una melagrana, ciò che ne
assicurava il ritorno. Ma Zeus stipulò che da allora in poi Persefone
avrebbe passato due terzi di ciascun anno con la madre e gli dèi del
mondo superno e un terzo con suo marito nell'Ade, da cui doveva tornare
anno per anno quando la terra s'inghirlandava dei primi fiori di
primavera. Felice allora la figlia ritornò alla luce del sole; felice la
madre la rivide e l'abbracciò; e nella sua gioia fece spuntare il grano
dalle zolle degli aratri campi e tutta la vasta terra fu piena di foglie e
di fiori"4.
Il
Frazer dimostra che la figlia era la personificazione del giovane frumento
dell'anno nuovo e la dea madre del raccolto dell'anno precedente. Il periodo
quaresimale potrebbe quindi corrispondere a quello celebrato dalle
donne greche che rappresentavano con riti funebri, lamentazioni e
astinenze varie, la discesa di Persefone nel mondo sotterraneo e il dolore
di Demetra che poi veniva festeggiata al ritorno sulla terra.
Durante
i quaranta giorni tra il carnevale e la Pasqua c'è l'usanza, tuttora viva
e osservata persino nello stesso centro storico di Caserta, di appendere
alle finestre o ad una corda tesa sulla strada tra due case dirimpetto un fantoccio
di non grandi dimensioni, vestito di nero e raffigurante la Quaresima.
Sotto l'ampia veste a campana, tra le gambe divaricate, gli si fa pendere
un agrume o una patata in cui sono infilzate sette penne che vengono via
via tolte al passare delle settimane precedenti la Pasqua.
Il
frutto (se è un agrume si preferiscono di solito un limone o un'arancia)
ha un significato magico-sessuale. Che lo si associ spesso al sesso lo
conferma il fatto che il primo tentativo di seduzione di cui si ha notizia
avvenne per il tramite di una mela; che nel nostro dialetto con alcuni
frutti si indicano anche gli organi sessuali femminili e maschili (fico,
banana, ecc.); che anticamente in alcune feste si vendevano le
limuncelle (grossi limoni) con le quali i ragazzi dichiaravano il loro
amore ad una ragazza; che nelle cosiddette voci intonate dai
venditori ambulanti ricorrono continue allusioni sessuali ed erotiche. E
si potrebbe ancora continuare.
Non
va dimenticato poi che un frutto, solitamente un limone, è spesso
impiegato per le fatture d'amore. In questi casi lo si trafigge con spilli
e fili di ferro per affrettarne il deperimento e dunque per accrescere
gradualmente le pene del cuore di chi s'intende colpire.
E'
per questo che le sette penne conficcate nell'agrume del fantoccio
sembrano anch'esse una fattura, un divieto, un'astinenza insomma
tipica della Quaresima.
*Gianni
Gugliotta, è da anni cultore delle tradizioni popolari casertane, autore e regista teatrale, collaboratore di R. De Simone.
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Note
1
Nell'anno liturgico prende questo nome un periodo di quaranta giorni, dal
mercoledì delle Ceneri al Sabato Santo, dedicato all'astinenza e al
digiuno osservati da Gesù prima d'iniziare il suo ministero. Se ne ha
notizia fin dal Concilio di Nicea (325).
In
realtà sono 46 giorni poichè alle 6 settimane che andavano dalla prima
di Quaresima al Sabato Santo, furono aggiunti 4 giorni per far sì che,
sottraendo le domeniche (in cui non si digiuna), i giorni di astinenza
restassero quaranta. Ma il numero complessivo variò anche secondo le
diverse Chiese, come ad esempio nel caso di quella ambrosiana che fa
coincidere l'inizio della Quaresima col lunedì successivo al giorno delle
Ceneri.
2
Intorno alla rappresentazione si vedano: V. DE BARTHOLOMAEIS, LAUDE
DRAMMATICHE E RAPPRESENTAZIONI SACRE, Le Monnier, Firenze, 1943 (vol.
III) - G. AMALFI, EL CONTRASTO DE CARNASCIALE ET DE QUARESIMA,
Napoli, 1890 - IL TEATRO ITALIANO (tomo I), a cura di E. FACCIOLI,
Einaudi, Torino, 1975 - A. D'ANCONA, ORIGINI DEL TEATRO ITALIANO,
Loescher, Torino, 1891 (vol. I) - P. TOSCHI, op.
cit.
3
N. BORRELLI, TRADIZIONI AURUNCHE, Collana Minturnese, Roma, 1937.
4
J. G. FRAZER, IL RAMO D'ORO, Boringhieri, Torino, 1973.
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