Tullio Pizzorno intervista Pietro Condorelli in occasione della pubblicazione del suo nuovo album “Native Language”
Dialogo-intervista d'eccezione fra due musicisti vanto della nostra provincia e che potremo ascoltare il 19 Aprile all'interno della rassegna Wine Listening a palazzo Natale a Casapulla che li vedrà impegnati in un imperdibile concerto in duo
Articolo di Tullio Pizzorno
Tullio: Una curiosità
"accademica": Col tuo stile hai sempre traghettato e tradotto per le
generazioni future i mondi e i valori classici dei capiscuola come Joe Pass
o Jim Hall. Oggi, di fronte al dilagante funambolismo chitarristico che
invade i media, e che paradossalmente in alcuni casi denuncia pure radici
"colte", ti domando, per te - da maestro - quanto sia difficoltoso o meno
far riconoscere l'importanza dello studio di tali valori a chi si avvicina
allo studio dello strumento, che rischia invece seduzioni mediatiche a
volte discutibili.
Pietro:
Cerco di dare il buon esempio, nel senso che non esistono solo funambolismi
e virtuosismi circensi, e d’altronde sono convinto che i musicisti abbiano
delle risorse, e che l’amore per la melodia e il gusto della ritmica non
verranno mai meno, perché l’essere umano è fatto per le cose belle e non
per lo spettacolo inteso nel senso più bieco della parola. Una bella
canzone sarà sempre immortale, come ci saranno sempre musicisti che
approfondiranno lo studio dell’armonia dei grandi capiscuola come Bill
Evans, Parker, Coltrane, che come vendevano anni fa, continuano ad essere
anche oggi riferimenti rappresentativi. Anzi noto ci sia una specie di
ricorso a musicisti che in passato venivano considerati nella tradizione e
basta, come Bud Powell e Thelonious Monk, che ora sono stati rivalutati
alla stregua di altre icone storiche. Questi sono buoni segnali, e la gente
quando smette di farsi condizionare dall’omogeneità delle proposte, inizia
a ragionare con la propria testa e a cercare qualcosa di bello e
interessante, non solo fosforescente.
Tullio: Ti pongo una
domanda tecnica: la suddivisione armonica tra la tua chitarra e il basso,
quella che qualcuno definiva "copertura", all'ascolto del disco, sembra a
tratti scientemente organizzata, nonostante conservi la naturale essenza
dell'improvvisazione jazz. Ti domando se siamo dunque di fronte a un'intesa
spontaneamente perfetta nell'interplay col basso, o se c'è stata anche
-come io credo- una tua impostazione armonica preventiva. In questa
eventualità, considerata la particolarità dell'ensemble (senza pianoforte),
quanto lavoro in termini di tempo ti ha richiesto la messa a terra del
tutto nella stesura armonica dei compiti, soprattutto dei registri bassi?
Perché se così non fosse significa che il bassista ti legge (o meglio ti
prevede) nel pensiero.E il batterista non è da meno in quest'intesa.
Pietro: Cominciamo a
partire dal presupposto che quando ero ragazzo io suonavo il basso, per cui
noterai che in tutte le mie composizioni c’è una grande attenzione alla
scrittura per il basso. Se ascolti gli arrangiamenti di brani come “All of
me”, o “I love you” vedrai che il basso è proprio determinante, e anche
rispetto ai miei dischi precedenti c’è anche una maggiore ricerca armonica,
tanto che ora suono molto più “Fingerstyle”, con gli accordi, e penso ancor
di più come una pianista piuttosto che un chitarrista, e questo fa un po’
la differenza. E’ ovvio che rifuggo dal concetto di virtuosismo etc, e poi
il bassista Antonio Napolitano è straordinario. Con lui si può ottenere un
certo interplay perché anche lui studia le stesse cose che studio io,
quindi diventa molto facile. Questo accade anche col batterista (Raffaele
Natale), e anzi con lui questa cosa si raggiunge ancor maggiormente perché
molto spesso ci alleniamo solo con chitarra e batteria. Diventa quindi
normale che alcune cose capitino quasi telepaticamente.
Tullio: Quando si prepara
"l'impianto " di un disco c'è solitamente un disegno logico che appartiene
ai brani scelti per farne parte. Qual è il filo conduttore tra i pezzi del
tuo ultimo lavoro ?
Pietro:
Il filo conduttore di questi brani è in qualche modo rileggere la
tradizione con uno spirito attuale, con un atteggiamento stilistico che non
è in genere scelto dai chitarristi, nel senso ci sono stati alcuni
chitarristi nella storia del jazz, come Barney Kessel, per certi versi
anche Joe Pass o Wes Momtgomery, che quando suonavano in trio avevno
talvolta avevano questo tipo di approccio, che io invece ora ho avuto in
tutto il disco, e non a caso mi riferisco anche ai pianisti, ad esempio in
“I love you” c’è una citazione da un
arrangiamento di Oscar Peterson,
come omaggio. Così come quando suono il brano di Billy Strayhorn, penso
anche a pianisti che sembrerebbero dimenticati ma che mi hanno molto
influenzato, come Horace Parlan. Ti dico una cosa in più: i chitarristi di
oggi stanno un po’ perdendo il senso di vista espressivo del nostro
strumento.
Tullio: Vero, e io credo che questo paradossalmente avvenga forse proprio perché ci si focalizza a volte quasi esclusivamente sullo “strumento”, estrapolandolo dall’arrangiamento, che invece con tutti gli strumenti dà il messaggio e la sensazione globale del brano.
Native language di Pietro Condorelli