Pupi Avati al Sannio Film Festival
S. Agata dei Goti (BN), 26 Luglio 2009
Articolo di Dario Salvelli
Arriviamo a Sant’Agata
de’ Goti attraverso il Ponte Martorano: il cinema non potrebbe raccontare in
maniera migliore questa cittadella che è quasi percorsa da due fiumi che tengono
lontano il centro storico de’ Goti, sempre molto animato, la cattedrale
dell’Assunta ed il castello di epoca normanna. L’antico borgo della provincia di
Benevento è sede anche quest’anno del Sannio Film Fest, festival internazionale
della scenografia e del costume che si è ormai costruito una buonissima fama
diventando un importante appuntamento annuale. I biglietti sono esauriti, il
pubblico si alterna tra una proiezione e l’altra e la bellissima mostra sulla
scenografia con una vasta esposizione di costumi, oggetti di scena originali
provenienti direttamente dal set. Passeggiamo tra una mitragliatrice di uno dei
western di Sergio Leone, un divanetto de “La Traviata” di Zeffirelli ed altre
“cianfrusaglie”. Dopo le divertenti foto di rito, ci dirigiamo verso la terza
serata del Sannio Film Fest , caratterizzata dalla presenza di uno tra i grandi
registi italiani viventi, o, come direbbe Mario Monicelli, “morenti”. L’incontro
con Pupi Avati è soprattutto un festeggiare e raccontare i suoi 40 anni di
cinema, una produzione filmica davvero ampia. Remigio Truocchio modera questa
chiacchierata che parte proprio dai tanti film che Avati gira ad un ritmo
altissimo rispetto ad altri registi: “mi fanno spesso questa domanda. Vengo da
una famiglia abbastanza semplice dove, da una vita in campagna dove la favola
contadina ed il racconto orale la fanno da padrona. Ricordo un viaggio in
autostrada da Bologna a Roma con mia madre che non smetteva mai di parlare, non
aprii bocca dal primo all’ultimo casello. Era una donna straordinaria, mi
lasciava sempre dei post it insieme alla colazione dove scriveva e raccontava.
Questa voglia di raccontare è diventata per me un’esigenza.”
Avati e Truocchio ripercorrono gli inizi della carriera del regista che,
visibilmente ispirato, racconta aneddoti ed episodi a volte interpretandoli
quasi in maniera teatrale, alzandosi e rompendo i canoni “formali”
dell’incontro. Molti giovani del 1968 erano ispirati dal mito americano: Avati,
soffrendo insieme ai suoi amici di una sorta di imbarazzo dovuto alla loro
“diversa” bellezza esteriore, per “cuccare” e fare colpo sceglie di cominciare a
suonare jazz. Quello che è uno sfizio diventa poi una vera e propria passione
tanto che Avati diventa uno dei clarinettisti più bravi di Bologna ed entra a
far parte di una orchestra di ginecologici che fa concerti in tutta Europa. E,
proprio mentre veniva alla ribalta come musicista, un altro giovanissimo
bolognese s’affermava anch’egli come clarinettista rubandogli la scena ogni
sera: era Lucio Dalla, diventato prima “allievo” di Avati e poi grazie allo
studio ed al talento un insuperabile clarinettista che strappava applausi con i
suoi assoli. Pupi Avati racconta episodi divertenti come “quando stavo per
uccidere Dalla, volevo buttarlo giù dalla Sagrada Familia di Barcellona”. Da
nemici ad amici, Dalla collaborerà poi con lo stesso Avati anni dopo. La
passione e la folgorazione per il cinema arriva durante una proiezione di 8 e
mezzo di Federico Fellini: “ero ormai 25 enne, avevo visto almeno un centinaio
di film ma solo allora mi resi conto di cosa volesse dire fare cinema. Insieme
ad alcuni amici volevamo fare un film dal titolo Balsamus l’uomo di Satana ma
non trovavamo né i fondi né gli attori. Nel mentre facevo il rappresentante di
prodotti surgelati fino a quando un amico mi chiamò dicendo che aveva trovato
uno dei protagonisti del film: in realtà era una comparsa, un personaggio
insignificante che doveva fare solo 1 posa (uguale ad un giorno di lavoro) ed
interpretare un nano. Questo nano si chiamava, ironia della sorte, Ariano
Nanetti e grazie a lui trovammo i soldi, una decina di assegni da 10 mila lire
cadauno, per girare il mio primo film. Non avevo esperienza da regista, il primo
giorno di lavorazione non sapevo cosa dire, pensai di vestirmi come Blasetti.
Dopo giorni che ripetevo in testa il meccanismo “motore-ciak-azione” al primo
ciak dissi “ciak!” invece che azione. La truppa, che era romana, mi assicurò:
“dottò non si preoccupi, il film glielo famo noi…”. La notorietà arriva poi con
lo sceneggiato televisivo del 1978 “Jazz Band” dove si raccontano le
vicissitudini di un gruppo di amici che vogliono sfondare nel mondo della
musica: la serie andò fortissimo, gli ascolti arrivarono a circa 18 milioni. “La
gita scolastica” del 1983 con “Carlo delle Piane” rappresenta per Pupi Avati un
punto di svolta dove raccontare il complesso mondo dei “brutti” e gli aspetti
ludici e felici della giovinezza. “Conosco benissimo il mondo dei brutti ed i
loro problemi per questo ho preferito e trovato interessante raccontare una
realtà vivace, che si può osservare con grande curiosità. Raramente guardo poi
la televisione ed il cinema degli altri non lo guardo mai. Lo immagino e,
spesso, ne parlo male”. Avati lascia il palco del Sannio Film Festa tra risate
ed applausi divertiti e conclude con un segnale preoccupante: “tanti giovani
vengono nel mio studio, li incontro ogni giorno nei luoghi dove vado. E’ vero
che non basta la passione ma ci vuole anche il talento per raggiungere degli
obiettivi ma molti di questi giovani sono abbattuti, demoralizzati. Non si può
essere giovani così”.
Non si vive di speranza, certo, ma il cinema può aiutare a sognare o a far si
che i sogni diventino realtà, direbbe Marzullo. Questo Sannio Film Fest ci
sembra il posto giusto per discutere, godere di cinema e -perché no!? - tornare
a sperare.
Consulta: Sannio Film
Fest