Polo in Jazz: Brad Mehldau in concerto
Marcianise (CE), 5 Luglio 2008
Articolo e foto di Gero Mannella
Oggi a Wimbledon c'era Federer con la vittima di turno: il russo Safin.
Al solito preciso al millimetro, razionale, silenzioso: nessuna sbavatura,
nessuna concessione alla platea. Vittoria netta.
Stasera il Polo Jazz Village sembrava Wimbledon: curato e impeccabile il
contesto, perfetto il suond check, misurato e polite il pubblico, al punto
da rispettare senza soverchie intemperanze il discutibile divieto verso le
foto (anche quelle senza flash), per la frustrazione di chi, professionista,
giornalista o semplice melomane, voleva suggere un'icona dall'evento.
Federer...ops...Mehldau ha sciorinato il suo repertorio in un rigoroso
silenzio, omettendo financo la presentazione dei pezzi, per la disperazione
del reporter.
Il palma res del protagonista, col suggello di Down Beat quale miglior
pianista jazz dell'anno 2004, e quello dei suoi musicisti, Jeff Ballard
dagli illustri trascorsi con Chick Corea, e Larry Granadier già partner di
John Scofield e Pat Metheny, era tale da garantire la qualità assoluta del
gioco-esibizione (in inglese "play" per entrambi): e così è stato.
Tuttavia è mancato un po' d'afflato, di vibrazioni, banalmente di swing:
prerogative primigenie del jazz.
A mio avviso complice di questo vuoto è stata la selezione musicale che ha
visto tra i 6 pezzi ben 3 blues di lungo decorso, ed una ballata.
Si parte dunque col primo dei blues, dove Mehldau dipana battuta dopo
battuta la sua metrica scivolando sulle spazzole di Ballard e sul vibrato
del basso, per poi passare ad un pezzo dall'esordio che ricorda il Jarrett
di Facing You e più avanti gli orizzonti new age del povero Esbjorn Svensson.
Un lavorio polifonico accompagna il terzo brano, con la mano sinistra spesso
a fare da solista e, dopo un interludio di impronta classico-umbratile, il
lento incanalarsi sul rituale ciclico delle sedici battute.
Finalmente nel quarto pezzo si annusa lo swing. Ballard lascia le spazzole e
passa alle bacchette e si dà ad un duo incalzante e strappa-applausi con
Granadier, che per l'occasione veste i panni di Milt Hinton. Brad si integra
a tono ed è una manciata di minuti di magia e cromatismi che si conchiude
con un asolo politimbrico del drummer.
Con la successiva ballata Jeff riprende le spazzole, Larry allenta di nuovo
lo slap sulle corde, e Brad si concede un ampio a solo da recital dove
occhieggia di nuovo Jarrett e certi toni impressionisti, complice un uso
cospicuo del riverbero.
Si chiude vivaddio con un samba cadenzato con vigore dalla sua mano
sinistra, con la destra a sciorinare un'inesauribile gamma di variazioni.
Poi il bis reclamato a gran voce sperando in un analogo
pulsare-ritmico-incalzare. E invece l'ennesimo blues, questa volta dal
sapore west-coast.
Decisamente Mehldau conosce e sublima l'arte del trio (dal titolo degli
album che hanno dipinto il suo mito). Tuttavia avremmo gradito qualche
trasgressione in più all'accademia, uno straniamento, una sperimentazione,
uno sberleffo.
Insomma ci sarebbe piaciuto che il Mehldau-Federer avesse giocato un po' di
più sotto rete.
Consulta: Polo in Jazz