In morte di Michael Brecker

15 gennaio 2007

Articolo di Gero Mannella


Chi inventò il fonografo, e chi di seguito ha affinato la tecnica dell’acquisire e riprodurre vibrazioni credo abbia reso all’umanità uno dei doni più belli.
Ieri, dopo aver appreso della sua morte, ho messo su un suo disco del ’78 in quintetto con Hal Galper; e così il sax tenore di Michael Brecker si è levato ancora una volta stentoreo, vulcanico, indifferente alle vicende del vivere e morire.
L'assolo in Triple Play già allora, trenta anni fa, rivelava l'espressività, la padronanza del timbro, la fabula, la ricchezza di idee debordante, che ne hanno fatto per tutti questi anni un totem del sax tenore.
E tale mi apparve, statuario qual'era, in una serata estiva all'arenile di Bagnoli, un paio di anni fa.
Allora la parola leucemia doveva risuonare vuota alle sue orecchie.
Con lui c'erano Gil Goldstein al piano, Alex Sipiagin alla tromba, Adam Rogers alla chitarra, Boris Kozlov al basso, e Clarence Penn alla batteria. Serata memorabile, poteva non esserlo?
Era un Michael Brecker hardbopper, trascinante e lirico, mai adagiato sullo stereotipo, sempre capace di cose inedite, di sorprese. Così come sorprendente fu quella formazione, crogiolo di influenze afroamericane ed esteuropee.
Michael Brecker è stata una voce forte e pervasiva del panorama jazz contemporaneo, sin dagli inizi degli anni '70 quando, dopo la palestra di Horace Silver e Billy Cobham, col fratello Randy mise su i Brecker Brothers, in un periodo in cui il jazz si coniugava con altri generi, il funk in quel caso. Poi ci fu il laboratorio degli Steps Ahead dove, insieme a musicisti di personalità, quali Peter Erskine, Eddie Gomez, Elaine Elias e Mike Mainieri, si delineò meglio il Brecker compositore a fianco del temperamentoso solista.
Il magistero della suo tenore valicò più volte l'alveo dei canoni jazz, rendendolo musicista trasversale ai generi e alle esperienze.
Poi le collaborazioni con Herbie Hancock e Roy Hargrove, i Grammy Awards, e infine il ritorno alla casa dei padri, Coltrane e Shorter sopra tutti, e alla fruttuosa ricerca tonale.
Un'altra ricerca, quella medica, non è stata al contrario in grado di arginare la sindrome mielodisplastica che lo aggredì un paio di anni fa, poco dopo Bagnoli, nonostante il trapianto di cellule staminali donate dalla figlia Jessica. Così se n’è andato ieri a 57 anni.
Ma chi ama il jazz sa che Michael Brecker non è morto. Sta suonando in questo istante, sta suonando "alla Michael Brecker", come si dice di un nuovo talento ricco di tecnica, idee, e voglia di raccontare, sta suonando mentre scrivo queste note.
Per cui val la pena fermarsi, chiudere gli occhi ed ascoltare.
 

 

foto jerden jansen

 

 
 

 

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