Lunedì 9 ottobre alle ore 21.00, presso il teatro Gobetti di Torino andrà in
scena il monologo, già presentato durante l'anno a Caserta e in circuiti
alternativi, proposto da Mutamenti, “Il Macero” dal romanzo “Sandokan – storia
di camorra” di Nanni Balestrini, scritto, diretto e interpretato da Roberto
Solofria, assistente alla regia Michele Tarallo.
La serata realizzata grazie al contributo de l’Associazione “Il Libro
Ritrovato”, l’Arci Piemonte l’Associazione “Libera – Piemonte”, il patrocinio
del Comune di Torino la collaborazione della Fondazione Teatro Stabile di
Torino, “Il Brigante” (Periodico per il Sud del terzo millennio) e la rivista
Narcomafie, proseguirà con un dibattito al quale interverranno: Davide
Mattiello (Vice presidente di Libera Piemonte), Diego Novelli (Vice Presidente
Ass. “Il Libro Ritrovato”), Giangiacomo Parigini (Presidente Arci Torino),
Pietro Nardiello (Direttore de “Il Brigante”)
Note di regia
“Nei paesi come il mio il cartello con la classica scritta Benvenuti è
sempre pieno di buchi di pistole e fucili perché indica che si tratta di un
territorio sotto controllo insomma chi ci entra deve sapere a quali rischi va
incontro”.
Pur essendo tratto dal romanzo «Sandokan – storia di camorra» del poeta e
romanziere milanese Nanni Balestrini, «Il Macero» non indugia sulle “gesta” del
noto camorrista casertano, delle quali peraltro vi è ampia traccia nelle
cronache giornalistiche e giudiziarie. E quando si sofferma sulle vicende del
clan che negli anni Ottanta sfidò la Nuova camorra organizzata di Raffaele
Cutolo, lo fa per descrivere, con un’impostazione surreale, il destino
iperrealista di un paese alla deriva. Un paese in cui il cartello con la
scritta “Benvenuti” è pieno di buchi di proiettili; in cui è “quasi” legale
truffare le assicurazioni o esercitarsi al tiro contro il portone di una
persona che ti è antipatica. Un paese in cui la cosiddetta modernità è giunta
sotto forma di armi tecnologicamente avanzate o di auto di lusso e di telefoni
cellulari, che l’uso di quelle armi consente di acquistare. Un paese in cui o
diventi un “muschillo” (la sentinella di un boss) o frutta da macerare.
Ma «Il Macero» è soprattutto il racconto dell’insolita sensibilità di un
ragazzo, della sua “ottusa” caparbietà nel cercare per sé stesso una strada
diversa. Del suo disagio a vivere in una comunità in cui l’attitudine al
delitto è divenuta scorza callosa e la banalità… rimedio ad ogni ingiustizia. A
tutto questo egli si ribella: prima parlando, decidendo di raccontare, di non
tacere, e poi abbandonando la terra in cui è nato. La sua vorrebbe essere
un’emigrazione morale, oltre che economica e sociale; un’emigrazione che nasce
dal rifiuto di accettare l’abitudine alla morte che fa da sfondo ad una magra e
indigesta esistenza contadina. «Il Macero» è la storia di una fuga, certo, è
però anche, almeno nelle intenzioni, l’esposizione “chirurgica” di un taglio
etico, politico, nei confronti di un inferno quotidiano, quello dell’Agro–aversano,
che non genera nemmeno eroi ma solo martiri. La scelta appare univoca quando il
protagonista si trova a dover accompagnare il cognato all’obitorio per
riconoscere e ricomporre la salma di un parente assassinato nella guerra tra
clan rivali: “Quel giorno sono ripartito subito, la sera stessa, per il Nord.
Ho buttato via i vestiti che ancora puzzavano di quella puzza orribile di
sangue congelato, mi sono fatto portare alla stazione e mi sono detto, con
rabbia, che non tornerò mai più al mio paese”. |
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