Il Macero al Teatro Gobetti di Torino

Torino - 9 Ottobre 2006

Comunicato stampa


Lunedì 9 ottobre alle ore 21.00, presso il teatro Gobetti di Torino andrà in scena il monologo, già presentato durante l'anno a Caserta e in circuiti alternativi, proposto da Mutamenti, “Il Macero” dal romanzo “Sandokan – storia di camorra” di Nanni Balestrini, scritto, diretto e interpretato da Roberto Solofria, assistente alla regia Michele Tarallo.

La serata realizzata grazie al contributo de l’Associazione “Il Libro Ritrovato”, l’Arci Piemonte l’Associazione “Libera – Piemonte”, il patrocinio del Comune di Torino la collaborazione della Fondazione Teatro Stabile di Torino, “Il Brigante” (Periodico per il Sud del terzo millennio) e la rivista Narcomafie, proseguirà con un dibattito al quale interverranno: Davide Mattiello (Vice presidente di Libera Piemonte), Diego Novelli (Vice Presidente Ass. “Il Libro Ritrovato”), Giangiacomo Parigini (Presidente Arci Torino), Pietro Nardiello (Direttore de “Il Brigante”)

 

Note di regia

“Nei paesi come il mio il cartello con la classica scritta Benvenuti è sempre pieno di buchi di pistole e fucili perché indica che si tratta di un territorio sotto controllo insomma chi ci entra deve sapere a quali rischi va incontro”.
Pur essendo tratto dal romanzo «Sandokan – storia di camorra» del poeta e romanziere milanese Nanni Balestrini, «Il Macero» non indugia sulle “gesta” del noto camorrista casertano, delle quali peraltro vi è ampia traccia nelle cronache giornalistiche e giudiziarie. E quando si sofferma sulle vicende del clan che negli anni Ottanta sfidò la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, lo fa per descrivere, con un’impostazione surreale, il destino iperrealista di un paese alla deriva. Un paese in cui il cartello con la scritta “Benvenuti” è pieno di buchi di proiettili; in cui è “quasi” legale truffare le assicurazioni o esercitarsi al tiro contro il portone di una persona che ti è antipatica. Un paese in cui la cosiddetta modernità è giunta sotto forma di armi tecnologicamente avanzate o di auto di lusso e di telefoni cellulari, che l’uso di quelle armi consente di acquistare. Un paese in cui o diventi un “muschillo” (la sentinella di un boss) o frutta da macerare.
Ma «Il Macero» è soprattutto il racconto dell’insolita sensibilità di un ragazzo, della sua “ottusa” caparbietà nel cercare per sé stesso una strada diversa. Del suo disagio a vivere in una comunità in cui l’attitudine al delitto è divenuta scorza callosa e la banalità… rimedio ad ogni ingiustizia. A tutto questo egli si ribella: prima parlando, decidendo di raccontare, di non tacere, e poi abbandonando la terra in cui è nato. La sua vorrebbe essere un’emigrazione morale, oltre che economica e sociale; un’emigrazione che nasce dal rifiuto di accettare l’abitudine alla morte che fa da sfondo ad una magra e indigesta esistenza contadina. «Il Macero» è la storia di una fuga, certo, è però anche, almeno nelle intenzioni, l’esposizione “chirurgica” di un taglio etico, politico, nei confronti di un inferno quotidiano, quello dell’Agro–aversano, che non genera nemmeno eroi ma solo martiri. La scelta appare univoca quando il protagonista si trova a dover accompagnare il cognato all’obitorio per riconoscere e ricomporre la salma di un parente assassinato nella guerra tra clan rivali: “Quel giorno sono ripartito subito, la sera stessa, per il Nord. Ho buttato via i vestiti che ancora puzzavano di quella puzza orribile di sangue congelato, mi sono fatto portare alla stazione e mi sono detto, con rabbia, che non tornerò mai più al mio paese”.

 

 

 

 
 

 

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