Martedì 4 settembre, San Leucio. Sarò sincero. E’ un azzardo proporre di far
recensire il concerto di Vinicio Capossela a chi, di lui, ne è follemente
innamorato (in senso artistico, ovviamente). Il rischio è quello di cadere in
una viscerale adulazione, banale e retorica, alimentata da una totale assenza
di giudizio razionale. Poi però, ti accorgi che il tuo giudizio incontra quello
di molti, in modo da non sapere più dove finisce la tua idea e iniziano quelle
degli altri. Finchè non capisci, con commossa razionalità, di avere assistito
ad un grande spettacolo, di un artista eccezionale. Facciamo un passo indietro.
Nell’atmosfera frizzante, bella e, mi sia concesso, insolita del Teatro dei
Serici, Vinicio Capossela mette in scena il suo concerto per la serata di
chiusura delle Leuciane.
Bizzarro, ironico e sentimentale come sempre, Capossela ci ha trattenuti per
più di tre ore “chiusi nella bottiglia del bettoliere”, e portato “a spasso”
nel tempo e nel suo mondo fatto di mille percorsi carsici gioiosi e
inquietanti. Sullo sfondo del palco i colori di suggestive ombre cinesi.
Intabarrato in una pelliccia scura e con la maschera da Minotauro, il
protagonista apre lo show con una “elettro-spettrale” versione di Brucia Troia,
che insieme a una lancinante “Non Trattare” onora il clima surreale dell’ultimo
album “Ovunque Proteggi”. Poi un pugno di rapinose ballate, rese ancora più
malandrine dal fine violinista Fabris. Da qui parte un viaggio attraverso le
tante canzoni del suo repertorio. Lucide riflessioni sui sentimenti,
sull’essere umano, e sulla nobile sofferenza causata dall’amore, in cui quei
personaggi così abilmente tratteggiati sembrano materializzarsi dietro di lui
ad ogni strofa cantata, trovando anche il tempo per ridere di gusto in qualche
estemporaneo scampolo che sa di cabaret. Poi improvvise virate verso l’America
Latina e l’Oriente, citazioni insospettabili (sensazionale la presentazione
della band in lingua latina), prima di una nuova fuga a Capoverde per una
languida morna.
Forse una storia d’amore che si trascina al suo termine la si può accettare
meglio se si stempera nei passi suggeriti da “Che cossè l’amor”, mambo
immaginifico in cui i pizzichi tarantolati del “Ballo di San Vito” fungono da
stimolo per la salutare danza liberatoria finale che coinvolge in toto i 2000
assiepati in teatro. Poi il gesto di commiato, “Ovunque Proteggi”. Spettacolo
straordinario, emozioni pure che parlano ancora una volta di un successo
strameritato.
L'evento è inserito nel
Leuciana Festival |
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