Teatro dei Serici, 25 luglio. La serata del 25 luglio potrebbe iniziare sotto
migliori auspici. La macchina fotografica ci abbandona quasi subito: dannate
pile scariche! Ma gli spunti che offre il protagonista della serata sono troppo
succulenti per lasciarsi fuorviare da uno stupido contrattempo che, al
contrario, stimola inedite considerazioni sulla performance.
Alle ore 22,00 entra in scena il Grupo Patria. Come dichiarazione d’intenti
impartisce una vera lezione sul fiero riconoscimento della propria identità
culturale ed il senso d’appartenenza che solo un’isola e la sua travagliata
storia possono dare. Per oltre sessant’anni, in forma di quartetto, questo
ensamble ha portato in giro il verbo del son cubano. Dal 1985 è guidato da
Eliades Ochoa De Bustamante. L’ingresso del leader è accolto con un boato.
Vestito di nero con cappellone a falde larghe, porta a tracolla la sua
chitarra-tres. Lo sguardo sornione incrocia quello dei musicisti in movimento
sul palco (dovremo aspettare un’ora e mezza prima di rivederli fermi). Al
secondo brano hanno già trasmesso al pubblico il loro moto perpetuo che
trasforma i lati della platea in sala da ballo. “El Guajiro”, come viene
soprannominato il cantante-chitarrista di Santiago de Cuba, snocciola uno
dietro l’altro classici del Grupo Patria e del suo repertorio. Tra gli altri
“Yiri Yiri Bon”, “Pena En El Alma”, “Pintate Los Labio Maria” sono eseguite con
canto abrasivo e indolente. La chitarra cesella interventi brevi ma intensi. Ma
sono soprattutto gli episodi del Buena Vista Social Club a incendiare il Teatro
dei Serici: effetto salvifico dell’operazione condotta da Ry Cooder e Wim
Wenders. “El Carretero”, “Chan Chan”, “El Cuarto de Tula”, “Candela”, pur
suonate in punta di dita, ipnotizzano il pubblico. Lo stato vitale dei
musicisti si riversa sulla platea, ritornando energizzato sul palco. Con buona
pace degli organizzatori, lo stato di trance collettiva trasforma il concerto
in sfrenata festa popolare.
Ochoa cinge tutti con simbolici abbracci “…todos hermanos!”. Qualcuno lancia
sul palco una bandiera italiana, lui rimane attonito. Forse vede anch’egli quei
colori sbiaditi dall’eco lontana di un mondiale di calcio. Sembra convinto che
non basta vincere una partita facendo montare rabbia e determinazione e che ci
voglia ben altro retroterra per alimentare il senso d’appartenenza ad un
popolo! Il processo transculturale che ha alimentato il caleidoscopico popolo
cubano pone inderogabili punti fermi e ne sancisce l’unicità. Unico per gli
elementi stilistici importati dagli spagnoli, dalle diverse etnie degli schiavi
subsahariani e dai colonizzatori francesi del XVII secolo. Unico per la
variegata immigrazione europea, cinese, araba ed ebraica del XIX secolo. Unico
per la colonizzazione nordamericana. Unico per l’embargo internazionale che ha
finito per preservare la cultura popolare cubana dalla “corsa alla modernità”.
Lo spirito di quella musica è uscito fortificato, rendendo sons, boleros,
tanghi e guarachas reperti archeologici ossuti ma straordinariamente vividi. Il
popolo cubano, per diversi motivi (non sempre onorevoli), appare ai bianchi
europei una testimonianza dell’Eden perduto e del valore aggiunto che può
garantire la multiculturalità. Così se la nazionale francese può perdere una
finale mondiale per eccesso di spocchia, grazie a quel medesimo valore
aggiunto, rivincerebbe la stessa partita 9 volte su 10.
Alla fine la vittoria di Ochoa è schiacciante. La sua squadra meticcia è
composta da fuoriclasse che vanno citati tutti. Musicisti che hanno disegnato
nell’aria il ritmo senza suonare un colpo in battere: il pianismo scintillante
di Humberto Raul Garcia Gonzales; l’accompagnamento vellutato alla chitarra di
Osnel Odit Bavastro; le trombe roventi di Manuel Felix Sanchez Martinez e
Alexis Emilio Gonzales Céspedes; il basso ondivago di Jose Angel Martinez
Nieves; la ritmica felpata di Jorge Maturell Romero alle percussioni e,
soprattutto, di Eglis Ochoa Hidalgo che ha mostrato quanto cangiante può essere
il suono delle maracas. Straordinari e basta!
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