Teano, 8 Dicembre. Dopo 13 gloriose edizioni estive, ecco che Teano Jazz
raddoppia: da ieri sera la prima edizione Winter di uno dei festival jazz di
maggiore prestigio della penisola.
Coraggiosa l’operazione di animare una stagione tradizionalmente letargica per
il jazz, a meno di sparuti jazz club che danno asilo a musicisti locali, e
coraggiosi gli appassionati a sfidare per l’occasione una livida serata di
pioggia.
L’evento di apertura della rassegna era il concerto del Jerry Popolo quartet
nella chiesetta di San Pietro in Acquariis, nel centro storico dell’antico
borgo.
Diciamo subito che il luogo, per quanto suggestivo, non era l’ideale per
l’acustica, complice un approssimativo lavoro dei tecnici audio.
Per cui una buona metà del concerto ha visto la rimbombante preponderanza
acustica della sezione ritmica a danno dei due strumenti solisti.
Al proscenio quattro baldi esponenti della ormai nota scuola salernitana: Jerry
Popolo al sax tenore, Alfonso Deidda al piano, Dario Deidda al basso elettrico
e Giampiero Virtuoso alla batteria.
Il sound è di quelli furbi, ammiccante al neofita nei temi orecchiabili e nella
ritmica di agevole presa, con qualche concessione modale al filo-hardbopper
quando gli assolo inclinano all’incandescenza.
Si comincia con “Suspence”, un trascinante easy bop per riscaldare il compatto
e raggelato uditorio, a cui fa seguito un’esotica cadenza di bossa alla Stan
Getz, in cui il poliedrico sassofonista si concede un interludio accorato e
nelle note del bassista risuona il migliore Eddie Gomez.
Nello swingante “Mister G” si rimarca un impulsivo duetto centrale con Virtuoso
che incalza Popolo in una cascata di suoni che evocava un Coltrane d’annata al
Village Vanguard. Ma era giusto un intermezzo: poi tutto si ricompone
confluendo in un rassicurante mainstream.
Su tale linea si inserisce la ballata successiva, il cui sound non è lontano da
certi canoni Blue Note degli anni sessanta (un nome per tutti, parlando di
tenori: Hank Mobley).
Il gruppo, è conclamato, si regge sull’asse Popolo – Dario Deidda.
Quest’ultimo è un bassista dalla tecnica raffinata e con idee debordanti. Di
quei pochi bassisti che potrebbero tenere un concerto da soli senza annoiare.
Cominci col sound pastoso del basso elettrico, poi chiudi gli occhi e ti trovi
a sentire le armoniche di una chitarra, i barré compulsivi che segnano la
ritmica, e poi via via echi di trombe (alla maniera di Pastorius) e sdrucciolii
sugli acuti.
Riapri gli occhi pensando caso mai si fosse aggiunta una guest star, e invece
trovi ancora le dita del Deidda che saltabeccano sulle quattro corde.
Ascoltarlo nel preludio al conclusivo Country di Keith Jarrett per conferma.
Per il resto una lirica citazione del Wayne Shorter di “Anamaria” e il
concitato umore afro-cubano dell’autarchica “Afternoon”, in cui il sassofonista
in gran spolvero ricalca le orme di un giovane Sonny Rollins.
Cosa dire alfine? Un concerto di chiara matrice boppistica, sanguigno e
ortodosso quanto basta, popolare se vogliamo. Del resto come non esserlo, se il
leader si chiama Jerry Popolo?
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