Caserta, 4 Novembre 2005.
Angelo. Incontriamo Pietro Condorelli in occasione dell’uscita del suo
ultimo lavoro discografico. “Easy” è il quinto disco da solista, il secondo per
la storica etichetta Red Records e nasce dall’idea di affrontare un repertorio
moderno di composizioni diverse dagli standard. Una musica di ascolto a largo
spettro, facile per la bellezza e la contabilità delle melodie ma non facile da
suonare proprio per la competenza e l’ispirazione che la caratterizza. Elemento
unificante di un album che ricerca un suono “antico ma moderno” è la semplicità
delle linee melodiche contrapposta a groove ritmici energici e molto vari tra
loro. Per questo motivo hai deciso di intitolare l’album Easy?
Pietro. Quando l’abbiamo registrato non pensavamo di chiamarlo in questo
modo. Poi al ripetuto ascolto del master ci siamo resi conto che il lavoro era
molto fluido all’ascolto. E’ un album che puoi mettere come sottofondo mentre
lavori o fai due chiacchiere con amici, mentre bevi del vino. Non disturba e
soprattutto non attira l’attenzione in maniera distruttiva rispetto a quello
che stai facendo come in genere fa il jazz. Tutto ciò mi ha fatto pensare a
questo tipo di idea. Easy è una sorta di denominazione di origine controllata
per quanto riguarda la fluidità dell’ascolto.
Angelo. Un lavoro sostanzialmente diverso da quelli precedenti, in
particolare da Quasimodo che è un album più cerebrale e tecnico. Come inquadri
Easy nel tuo percorso artistico? Rappresenta un punto di partenza o di arrivo?
Pietro. Quasimodo in qualche modo è uscito fuori come un disco concept,
mi ha dato tantissimo e probabilmente è il lavoro al quale tengo di più. Easy è
un disco nuovo e rappresenta una evoluzione di quella formazione. Il quintetto
è lo stesso: Fabrizio Bosso (tromba), Pietro Ciancaglini (contrabbasso), Pietro
Iodice (batteria) e Francesco Nastro (piano). In alcuni brani poi ho ospitato
altri musicisti straordinari che sono Roberto Schiano (trombone), Daniele
Scannapieco (sax) e Jerry Popolo (sax). Una line up molto interessante che
presenta molte sfaccettature nel fare musica. L’idea era anche quella di
suonare musica non originale, che facesse parte della grande tradizione del
jazz ma non necessariamente standard. Così abbiamo pescato composizioni di Sam
Jones, Lee Morgan, Wes Montgomery, Joe Henderson, Duke Person, cercando di dare
a questa musica un taglio attuale, curando tantissimo gli arrangiamenti.
Ritornando alla domanda, mi piace pensare a questo album come a un punto di
partenza. Forse Quasimodo era un punto d’arrivo.
Angelo. Cosa ti aspetti da questo album? Perché un punto di partenza?
Pietro. Perché penso in futuro di lavorare sempre di più in una
direzione precisa: continuare ad esprimermi attraverso l’improvvisazione con il
mio linguaggio, il mio fraseggio e con l’idea di comunicazione che ho della
musica cercando però di creare un coinvolgimento dell’ascoltatore medio, quindi
non soltanto di chi ha già esperienza nell’ascoltare un certo tipo di musica.
La direzione che sto prendendo è quella di lavorare a più livelli
contemporaneamente.
Angelo. Oggigiorno l’Italia e il jazz sono due poli che si attraggono.
In più di un’occasione, pensiamo ai tanti festival sparsi nella penisola,
sembrano persino amarsi alla follia. La convivenza diventa difficile quando si
tratta di portare il pubblico dalle sale dove il jazz si ascolta a quelle dove
la musica si acquista. Lì l’Italia e il jazz si studiano ancora. Se poi si
tratta di scegliere da uno scaffale un jazzista dal nome italiano, allora gli
sguardi, invece di incrociarsi, deviano verso aree straniere.
Qual è precisamente la situazione attuale della discografia italiana in ambito
jazz?
Pietro. Hai ragione, ma c’è da fare una importante precisazione. In
Italia si producono troppi dischi di jazz e nel 75% dei casi il livello della
musica proposta non è alto. Molto spesso giovani musicisti arrivano al primo
album utilizzandolo quasi come se fosse un biglietto da visita. Automaticamente
esistono tutta una serie di mezzi discorsi sulle produzioni “fasulle”, sulle
autoproduzioni e sulle etichette discografiche quasi inesistenti che non si
occupano né di produrre i dischi come si deve né della distribuzione di tali
lavori. Di contro c’è da sottolineare una grossa fascia di appassionati di jazz
italiano in Italia che compra i dischi facendoli diventare dei successi. Penso
ai dischi di Rava, Pierannunzi, Gatto ecc. S’intenda che un disco di jazz
diventa un successo quando vende quattromila copie, il che rappresenta quasi un
miracolo in Italia.
Angelo. Negli ultimi anni si è potuto costatare un grande ritorno al
jazz. Lo si ascolta un po’ ovunque, anche in televisione, magari a fare da
sottofondo ad uno spot. Un ritorno sincero o solo una moda
“pseudo-intellettuale”del momento?
Pietro. Penso che il jazz viva di periodi. Periodicamente viene fuori
una forma di “jazz revival”. Adesso si parla di Smooth Jazz, negli anni ’70 ci
fu un ritorno al jazz con connotazioni fortemente politiche, con la musica
d’avanguardia, il free jazz ecc. Al di là dei periodi storici, c’è da dire che
il jazz risorge sempre perché rappresenta una forza vitale per la musica. E’
musica costantemente in evoluzione senza però scostarsi troppo dalla
tradizione. Penso che il jazz avrà sempre dei potenziali ascoltatori perché
comunica non solo a livello intellettuale ma anche, e in maniera più forte ed
evidente, dal punto di vista della sensazione istintiva. Tutti hanno i mezzi
per poter percepire l’aspetto ritmico della musica anche se non sanno niente di
che cos’è un accordo. Dal momento che questo è il parametro più importante,
collegato a tante situazioni fisiologiche, si può affermare che il jazz non
potrà mai sparire.
Angelo. Cos’è per te il jazz?
Pietro. Sicuramente è un modo di vivere, un linguaggio, una forma
di comunicazione, nel mio caso una forma d’identità.
Angelo. Oltre ad essere uno dei migliori chitarristi jazz italiani
svolgi un’intensa attività didattica, sei docente di musica jazz presso il
Conservatorio S. Pietro a Majella . Qual è il primo consiglio “musicale” che
dai ai tuoi allievi?
Pietro. Essere dei bravi autodidatti. Può sembrare un paradosso ma non è
così. Nel jazz il lavoro necessario per riuscire a comunicare mediante
l’improvvisazione è la psicoanalisi atta a trovare un’identità. L’insegnante
deve dare delle linee guida pulite in cui ci sia chiarezza nella visione
globale della musica e, quindi, nelle cose che mancano per poter completare un
immaginario puzzle di argomenti e di sensazioni. Se l’insegnate è bravo e
riesce a fornire un quadro abbastanza preciso delle cose, il successivo
obiettivo è quello di stimolare lo studente a seconda delle caratteristiche in
una direzione o in un’altra al fine di evitare di avere tanti musicisti che
suonano allo stesso modo. Quando parlo di autodidattismo mi riferisco ad una
sorta di consapevolezza del proprio stato e della propria intenzione artistica.
Angelo. Una volta assunta una precisa identità musicale e comprese le
intenzioni artistiche, però, il percorso diventa carsico. Non sempre essere
bravi musicisti, con tanto di gratificazioni, significa incontrare il successo.
Pietro. Le gratificazioni esterne non contano più di tanto. Molto
più importante è trovare l’energia in se stessi. Tantissimi bravi musicisti non
fanno questo per mestiere. Chi vuole fare il musicista per professione deve
fare i conti con la realtà delle cose. Purtroppo in musica non c’è spazio per
tutti, c’è solo per i più forti. Se dovessi dare un consiglio ai giovani
musicisti ricorderei la famosa barzelletta del turista che chiese ad un
poliziotto come fare per arrivare al Carnagie Hall a New York. Il poliziotto
rispose:"pratics, pratics, pratics". C’è poco da fare, nella musica serve tanto
lavoro, studio e sacrificio. Ci sono tanti musicisti molto bravi, ma anche a
parità di livello sorgono numerose altre problematiche legate ad esempio alla
capacità di avere delle relazioni sociali utili e valide, di saper stare negli
ambienti giusti. Poi ci vuole un pizzico di fortuna senza il quale
difficilmente si riesce ad andare avanti. Una sola di queste componenti non
basta, bisogna averle in qualche modo tutte.
Angelo. Si può vivere di musica?
Pietro. Assolutamente si, come in qualsiasi altro mestiere. La cosa
importante è non abbassare mai il livello di guardia. C’è gente che studia e
arriva ad ottimi livelli dopo di che inizia a non praticare delle cose
essenziali. Faccio degli esempi banali: la lettura a prima vista, stare bene
sul tempo, la qualità del suono. Non basta aver studiato da bambini; questo è
un lavoro e se lo si vuole prendere come tale bisogna essere sempre svegli, in
un certo senso è un lavoro spietato. Per questo motivo consiglio sempre di
godersi la musica nel modo migliore e di imparare il più possibile della musica
ma non pensare di viverci necessariamente.
Angelo. Come giudichi la realtà musicale della nostra provincia?
Pietro. C’è molto talento. Purtroppo vedo i giovani musicisti casertani
“allo sbando”. Nel senso che non hanno delle figure di riferimento solide e
soprattutto autorevoli; hanno dei punti di riferimento che spesso non
mantengono le promesse. Da questo punto di vista il problema esiste. Inoltre
non c’è spazio dalle nostre parti per la musica dal vivo. Non è la stessa cosa
di vivere a Napoli e avere ogni sera tanti stimoli diversi, importanti. Qui non
c’è terreno di comparazione. Per la crescita artistica è molto utile il
confronto. Da questo punto di vista i giovani musicisti della nostra provincia
non hanno delle costanti occasioni di paragone e ovviamente questa situazione è
dannosa. Io posso considerarmi il chitarrista più bravo del mio quartiere o del
mio pianerottolo ma questo non servirà a farmi crescere dal punto di vista
musicale, anzi per certi versi questa convinzione rappresenta una restrizione
perché non trova poi oggettivi riscontri nella realtà. Quindi, dico a tutti di
ricercare dei confronti altrove, penso a Roma, Milano, la stessa Napoli. Solo
facendo esperienze di questo genere si inizia a capire a che punto ci si trova
e quanta altra strada c’è da fare.
Angelo. Ultima,solita domanda. Se dovessi mettere un biglietto in una
bottiglia e lanciarlo in mare, cosa ci scriveresti?
Pietro. “Stop the
war”. |
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