Barocco al tramonto
Capodrise - "Suscitar maraviglia": questo il fine dichiarato del poetare
secondo i dettami del più illustre poeta barocco, Giambattista Marino. Ed al
medesimo fine sembra voler tendere questa dimora, oggi ancor più che nel
ridente secolo in cui fu concepita. Forse perché incastonata - gemma preziosa -
in una montatura di paccottiglia, un contesto architettonico e urbanistico
fatto di giustapposizioni arbitrarie, superfetazioni, oblii colpevoli. Il
polveroso e decrepito portone, di questo antico palazzo, malinconico e
scolorito, non lascia presagire nulla dell'interno, allorquando, aprendo i suoi
battenti, dischiude ad una corte chiusa e composta. Oltrepassato l'intrico di
rami contorti e foglie pesanti, ecco rivelarsi un giardino verrebbe da dire
segretamente inaspettato, ove regna un'atmosfera quasi irreale, come sospesa in
un tempo indefinito, dettato da uno scorrere inspiegabilmente lento dei minuti
e delle ore. La luce ora inonda imbibendole di colate di colore verde intenso
le foglie, ora incupisce in torbidi manti scuri le chiome di alberi e piante.
Mute presenze, quasi simulacri di misteriose divinità fanno capolino
nell'intrico della verzura, frammenti di storia rivivono in volti, creature
fantastiche scolpite in un marmo che si staglia levigato e candido sulle mura
incrostate di rosa. Broccati pesanti ondeggiano al vento, lasciando scorgere
nel loro ritmico rivelare e nascondere anditi segreti, passaggi in ombra. Una
sedia bianca decapata, una consolle consumata stinta dal tempo e dall'usura, un
tavolino che sembra sfuggire all'abbraccio ghermente dei tronchi
scenograficamente inclinati verso il basso, raccontano di lunghe meditazioni
solitarie o di intime confessioni o, semplicemente, di mute e appagate
contemplazioni: la natura qui, tra le foglie carnose, i frutti copiosi e le
fronde a cascata, celebra il suo trionfo. Un trionfo che si tinge di bianco
nelle candide corolle di camelie, ortensie, dature, e nei rami spettralmente
dipinti di calce nivea: guizzi di luce eterea come le mute presenze di questo
giardino "fantasma".
Il rumore leggero dei passi si intreccia con il fruscio leggero dei tendaggi,
con lo stridio delle porte sontuosamente affrescate. Di nuovo quella struggente
sensazione di una sospensione del tempo: l'aria è immobile, gli oggetti, i
colori persino i profumi come fissati per sempre in un passato eternamente
presente. L'artefice di questa magia, verrebbe da dire l'illusionista del tempo
perduto, è Nicola Tartaglione. L'architetto ha adottato come criterio
informatore del restauro - peraltro durato cinque anni ancorché "invisibile" -
la salvaguardia quasi sacrale dell'autenticità: non ha voluto ridipingere la
materia perché ciò avrebbe significato perdere patine, atmosfere, profumi,
irrimediabilmente. Per questo non c'è qui la consueta alternanza di parti
autentiche e parti rifatte che troviamo altrove, ma è tutto rigorosamente
autentico, anche le crepe nei muri. Persino l'acqua, utilizzata come solvente
per sciogliere vernici successive e sovrapposizioni sugli affreschi, è stata
"diluita" per non infierire in modo troppo invasivo sulle pitture antiche.
L'effetto finale è quello di una dimora un po' decadente, il cui fascino
promana da un'atmosfera arcana piuttosto che da un sapiente restauro, come una
vecchia signora che ci mostra senza remore il suo volto così come è arrivato a
noi dopo due secoli di storia.
Entrare in questa casa museo è come aprire uno scrigno e trovarvi un
un'emozione piuttosto che un oggetto, un contenuto emotivo piuttosto che
funzionale. E' come affacciarsi su una vita e su un'anima, quella di Domenico
Mondo. Nato il12 maggio 1723 a Capodrise, si forma pittore alla scuola
dell'anziano Francesco Solimena e sposa Teresa Giannattasio, diventando padre -
ahimè - di ben cinque figlie da maritare. E' proprio la necessità di procurarsi
denaro per le doti da dare alle sue figlie a spingerlo a dichiararsi
pubblicamente disposto a lavorare, benché benestante, per denaro come pittore
professionista, e non per mero diletto. Cominciò, pertanto, a subissare di
"suppliche" i reali Ferdinando e Maria Carolina perché gli trovino un lavoro
nel grande cantiere della Reggia di Caserta. Luigi Vanvitelli lo ritiene un
pittore di vecchia scuola, dalla maniera barocca ormai demodé. Ciò nonostante
Maria Carolina gli fa affidare la decorazione pittorica della prima sala della
Reggia, il Salone degli Alabardieri, dei sovrapporta della Sala delle Dame e,
dopo qualche tempo, la realizzazione delle pale degli altari laterali della
Chiesa dell'Annunziata di Marcianise. Dopo alti e bassi, specie economici,
finalmente il miraggio di un impiego fisso e remunerativo: nel 1789 Domenico
Mondo viene nominato, insieme a Wilhelm Tischbein, direttore dell'Accademia
Napoletana del Disegno. Allo scoppio della Rivoluzione partenopea, nel 1799, lo
straniero fugge impaurito e Mondo rimane unico direttore fino al 1806, anno
della sua morte.
Le stanze si susseguono l'una nell'altra: la prima è la sala da pranzo,
arredata con una tavola di stile Ferdinando IV di Borbone rosso minio e oro,
sedie in lacca verde e oro modello Sant'Anna, tendaggi pesanti, alle pareti
dipinti di scuola barocca accostati, a contrasto, con sculture in ferro, di
moderna fattura, opera dell' artista marcianisano Michelangelo Cice. Più che
arredate, le stanze sono state scenografate dall'architetto che ha peraltro
brillantemente risolto il problema del salone dalle pareti decorate "a
galleria", la cui continuità pittorica è stata bruscamente interrotta da un
tramezzo divisorio lì posto dai vecchi proprietari per questioni di
frazionamento ereditario. La soluzione più ovvia avrebbe previsto uno specchio,
ma per ricomporre l'unitarietà perduta, Nicola Tartaglione ha voluto ricreare
qui il cosiddetto "salotto pittoresco". Nel '700 era consuetudine degli
aristocratici esporre nella sala così denominata i quadri più cari al padrone
di casa, ciascuno illuminato da una candela: l'effetto delle tele accostate,
unito al pastiche di candele, otteneva l'ambito fine di impressionare i ricchi
borghesi in visita alle famiglie nobili. Segue la cosiddetta "sala d'angolo"
che oggi ospita un salotto barocco ed ha un soffitto affrescato dedicato all'
allegoria delle Virtù cardinali e teologali. Essa accoglieva originariamente la
camera da letto, come si evince dal tema dell' affresco raffigurante, in un
angolo, una donna che regge l'aratro ed un' altra che stringe un nodo, simbolo
dell'amore coniugale. A sorpresa, sotto una delle finestre, spunta un affresco
raffigurante una tomba archeologica scoperchiata contenente i resti di alcuni
vasi di terracotta. E' il segno evidente di un "cambio del gusto" dell' epoca,
seppure sostanzialmente non condiviso dal pittore che dipinge i reperti e i
vasi etruschi di malavoglia, con scarso entusiasmo. Non si può sfuggire,
tuttavia, ai dettami della moda: le stanze a seguire, decorate poco anni dopo
agli inizi dell'Ottocento, obbediscono al nuovo gusto del fervore neoclassico.
Lo studio è ispirato alla "discoverta" archeologica:torsi di marmo, incisioni
raffiguranti i pavimenti di mosaico di Pompei ed Ercolano, vasi etruschi. Nella
camera da letto troneggia il letto a baldacchino col quadro capoletto
raffigurante San Giovannino; pesanti tendaggi di rossa seta di San Leucio con
decorazioni di rose e camelie velano agli ospiti la vista non più amena del
contesto urbano odierno. Una dimora stilisticamente partecipe di due epoche,
fastosamente opulenta nel tratto barocco e rigorosamente lineare in quello
archeologico. Una casa di transizione, dunque, specchio di un uomo che fu
anch'egli in bilico tra il Barocco ormai al tramonto e l'alba del
Neoclassicismo(ritorna a Le
quattro stagioni)
Da Belle Case: testo di Giovanna Mignano, fotografie di Robert Emmett Bright e
Alessandro De Crignis, restauro Arch. Nicola Tartaglione |
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