B-fronte: "Ri-composizione" di Abramo Cantiello e Francesco Capasso

S. Maria C. V. (Ce) – dal 6 al 13 novembre 2004

Comunicato stampa di Marco di Mauro


Note critiche su Abramo Cantiello e Francesco Capasso a cura di Marco di Mauro

Abramo Cantiello è affascinato dalla pittura dell'immobile, della quiete, del silenzio, dell'atemporale che si carica simultaneamente di una vaga intensità. Cantiello delinea atmosfere tese, vibranti, in cui l'oggetto acquista una parvenza irreale. Le sue immagini austere, ambigue, ieratiche tendono all'astrazione. L'artista non aspira ad imitare la natura, bensì ne vuole afferrare l'intima essenza per immettersi nei suoi processi creativi.
Le sue nature morte hanno una severa dignità ed una purezza quasi geometrica, esaltata dal sapiente uso della luce, dall'accostamento di colori complementari, dalla nudità e dalla simmetria dello sfondo. Un marcato chiaroscuro esalta il carattere scultoreo della forma, la traduzione dello spazio attraverso l'impianto della scena. Chi contempla Vanitas, una delle nature morte più riuscite, vi può cogliere una vita spettrale soggiacente, che è immobile eppure animata. Le immagini dei fiori appassiti e del teschio di capra esprimono un'alta densità emotiva, uno stato di agitazione e sconforto per la bellezza sfiorita, la vita estinta, la luce sfumata.
In Pensiero verticale, intensa opera del 1995, Cantiello si rappresenta davanti alla tela, con la maglia sudata e il pennello abbandonato sulla sedia. L'inquietudine dell'artista, che sente la sua pittura inadeguata all'espressione delle idee, è avversata da un uomo in abiti orientali, che osserva la tela con interesse. Le due figure volgono gli occhi in direzioni opposte, come a voler sottolineare la divergenza di opinioni tra chi realizza e chi fruisce l'opera d'arte.
Un'altra opera significativa, alla quale l'artista ha lavorato dal 1993 al 2004, è l' Autoritratto con cavallo, in cui la figura umana scompare dietro la possente sagoma dell'animale. Il profilo del cavallo, il cui realismo è pari alla fermezza, si staglia su un ampio paesaggio collinare, trasfigurazione idealizzata della sua terra. Sorprende la gravità statica, la solennità del cavallo, che invade la scena e respinge in secondo piano l'autoritratto dell'artista.
Abramo Cantiello, con una sensibilità metafisica, coglie il flusso dell'immobile guardando la realtà con l'allucinata visione di un mistico e ne restituisce la fisicità con attento controllo tecnico, compositivo ed estetico. L'artista ha elaborato un linguaggio concreto ed icastico, memore di Piero Della Francesca e di Jean Fouquet, in grado di esprimere una sensibilità contemporanea in una forma classica.
Abramo Cantiello è anche un abile ritrattista, che tende a rappresentare l'anima nell'armonia del volto. Nei ritratti che esegue, colpisce lo sguardo intenso, la dignitosa compostezza, la forza espressiva. La meticolosa cura del particolare non esclude una sottile introspezione psicologica, che l'artista attua con sensibile delicatezza e traduce in un linguaggio sincero e intimista.

La ricerca di Francesco Capasso tende alla sublimazione poetica dell'oggetto usato, logoro, abraso, di cui rivela la segreta spiritualità come residuo dell'esistenza non solo umana, potremmo dire cosmica. Le sue opere sono solcate da graffi, crepe, crettature, che comunicano una sensazione di sofferta precarietà. La materia, devitalizzata dalla consunzione, diventa elemento primordiale, residuo solido di una vita che si estingue.
Nelle elaborazioni dei primi anni '90, Francesco Capasso tende a nascondere il proprio intervento per suggerire che l'opera sia "fatta da sé". L'artista intuisce, attraverso la lezione di Burri e Kapoor, che il segno può nascere dalla colatura della ruggine o dall'impronta dell'acqua su una superficie. La trasformazione dei materiali attraverso l'azione del tempo e della natura lascia una traccia segnica, una testimonianza di vita che accende la sua sensibilità.
Alla fine del '95, Capasso sceglie l'uso sistematico della carta abrasiva, affascinato dalla sua proprietà di conservare l'impronta del colore asportato dagli oggetti. L'artista recupera, seleziona ed applica sul supporto minuti frammenti di carte abrasive, fissati con spilli e collanti naturali. L'opera assume un carattere di temporaneità, instabilità, transitorietà, perché i tasselli sono asportabili e componibili all'infinito. La carta usata ci parla del suo passato, ci sollecita a pensare all'uso che ne è stato fatto, prima d'essere fissata nell'immobilità dell'opera d'arte. I suoi colori rimandano ai muri di tufo, agli intonaci grezzi, ai campi assolati della Terra di Lavoro. Le carte abrase raccolgono i riverberi di una realtà degradata e confusa, che l'artista tende a ricomporre con estremo lavoro di sintesi. Altra costante nell'opera di Capasso è l'oscillazione tra ordine e caso, rigore e poesia, che si riflette nella geometria del supporto e nella libertà del segno. Tale oscillazione si esprime compiutamente in Composizione n. 9, dove la geometria dell'impianto, basata sull'iterazione del numero 3, è turbata dal caotico disporsi delle carte abrasive.
Nelle ultime opere, l'artista di Sant'Arpino recupera in chiave concettuale la tecnica dell'affresco, intesa come immissione del pigmento naturale nella calce viva. Il colore, una volta catturato dalla materia, ne diviene parte integrante.

Un'opera di Francesco Capasso

 

Un'opera di Abramo Cantiello

 

 

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