|
|
Sosteneva Pablo Picasso di dipingere solo falsi; la menzogna, allora, appartiene alla rappresentazione forzata delle interazioni fra le cose. In realtà, proprio sotto questa menzogna si nasconde sempre una verità. Ed è menzogna apparente rappresentare, come fa Antonio di Grazia, il Guggenheim Museum di New York come un catino pieno di scarpe vecchie argentate o se stessi come elemento centrale del grattacielo milanese. La verità, in questo caso, come nell'arte in genere, è che essa si nasconde proprio dietro la falsificazione della visione ed il paradosso si trova nella fusione estemporanea di due matrici normalmente incompatibili avendo connaturato in sé la forma della duplicità, il conflitto duale fra ciò che si vede e quello che effettivamente è. Eppure proprio questa contraddizione afferma come una doppia negazione; se nella realtà fisica, infatti, non esistono grattacieli affiancati da catini pieni di scarpe, nelle nuove strutture ipermediali della vita del cyborg questa immagine ha la stessa potenza dirompente dell'assioma; essa esiste perché l'atto assoluto dell'arte lo concepisce e la demistificazione del falso è, di per se stessa, l'affermazione del vero. In questo lavoro di Antonio di Grazia il travestimento dell'ambiente urbano, contaminato dal ciarpame, riporta ad un luogo altro in cui, come sosteneva Marshall Mc Luhan, il cliché si trasforma in archetipo per cui l'immagine abitudinaria diviene elemento originale e significante. D'altra parte per Jung l'archetipo è un elemento proprio della nostra struttura fisica e pertanto una componente vitale e necessaria; essa rappresenta e personifica certi dati istintivi dell'oscura psiche primitiva, le vere invisibili radici della conoscenza. Nelle nuove dinamiche della prassi le immagini degli oggetti possibili si versano in uno spazio dell'eccesso dove le estensioni del corpo appartengono ad un universo n-dimensionale in cui i confini sono sostituiti da processi immaginifici infiniti. La griglia delle interrelazioni su cui si stratificano i lavori di A. di Grazia travalica il confine dell'opera stessa per essere attestazione di esistenza tout court funzionale in qualsiasi angolo del globo (o della rete, tanto è lo stesso). La città di Londra, come quella di New York o Brasilia riportate in un mondo di contaminazione con l'oggetto minimale, trasformano il panorama degli eventi spostando la linea dell'orizzonte all'interno delle possibilità della mente dell'osservatore. Non è, poi, così importante vedere una tela o un manifesto pubblicitario di grandi dimensioni sui muri della metropoli; ciò che effettivamente è essenziale è ricevere l'input che sveli il segreto, l'enigma della vertigine che l'uomo contemporaneo prova verso le forme di fascinazione delle realtà virtuali. Il concetto di virtualità, in queste opere di Antonio di Grazia, è al di fuori della sua rappresentazione tecnologica, è, piuttosto, una presa di coscienza dell'impossibilità di conoscere fino in fondo l'idea assoluta dell'oggetto preferendo, attraverso una pulsione tutta personale, la sua figurazione nel mondo sensibile. Nell'operazione del divenire della trasformazione continua della metropoli egli dissolve i fili della trama visuale per ricostruirli, attraverso una mutazione radicale, in un paradigma alterato, contaminato dai nuovi virus dell'esistenza. Dove muore una vecchia forma di pensiero nascono i nuovi organismi dello spettacolo del reale laddove l'allegoria dell'alterità è la figlia bastarda di una entropica follia.
Massimo Sgroi
La mostra di Antonio di Grazia - L'orizzonte morente della metropoli,
è aperta a Caserta, Via Gasparri, dal 1 al 15 luglio 2003, tutti i giorni dalle ore 0:00 alle ore 24:00.
|
|
|
La mostra di Antonio di Grazia - L'orizzonte morente della metropoli,
è aperta a Caserta, Via Gasparri, dal 1 al 15 luglio 2003, tutti i giorni dalle ore 0:00 alle ore 24:00.
|