KENIAJI DOBIN SUTAKUY, giocava con la sua palla
di foglie di noci di cocco e palme, si sentiva felice nella sua
terra, una piccola regione dell’Africa Centrale, dove a tratti
giungeva l’odore pungente di salsedine dell’ Oceano Atlantico in
tempesta. Una notte fu strappato dalla sua gente e incatenato,venne
imbarcato dentro la stiva di una fetida nave di schiavisti, che
prese il largo verso le Americhe. Keniaji, nella sua coscienza, non
capì molto di quella storia, se non per il pane duro e l’acqua
sporca che gli davano da bere, e pregò il suo Dio di farlo vivere
abbastanza, per cercare, un giorno, di raccontare quelle notti da
incubo, sopra un mare nero di cui lui non aveva mai visto così in
tempesta. Era l’ alba di un gelido giorno dell’ anno 1785,
quando lo sbarcarono in una insenatura della attuale Florida. Fu
caricato dentro una gabbia di canne, venne venduto a uno dei tanti
coloni, proprietari di piantagioni di cotone, che il Mississippi
vantava di avere, e da quel momento di lui non se ne seppe più
nulla, venne fagocitato nell’oblio dei secoli. 1905, il piccolo
Keniaji Dobin si alzava tutti i giorni prima che sorgesse il sole, e
stringendo con le sue piccole mani il misero fardello contenente
poca roba da mangiare, si incamminava con la gente del suo stesso
colore, verso quel torrido e incandescente campo, immenso per lui,
che gli faceva da cielo fino al tramonto, quando stanchi e stremati
si ritornava verso quelle mefitiche stalle per passare la notte,
senza immaginare quante volte, i suoi avi l’avevano percorsa,
accennando strani canti, ritmati dal battito delle mani e
percuotendo i secchi di legno oramai vuoti. La notte, intorno ai
fuochi, passava lenta danzando sulle ombre oramai sbiadite di frasi
intonate verso il cielo, mentre altri, con i loro “shout”,
davano il “response” alla frase principale, che quasi sempre
faceva da appoggio a brevi accenni del corpo e del capo, quasi a
sottolineare, l’ importanza del dialogo con il loro Dio. Con
questi panorami, che riempivano il cuore e l’anima, Keniaji
assorbiva il trascorrere lento dei giorni, spezzati da qualche festa
che si teneva nell’ aia adiacente alle buie abitazioni che
fungevano da dormitoi, e quando, pieno di eccitazione seguiva con lo
sguardo avido di bambino, il lento arrivare di figuri, a lui quasi
estranei e misteriosi, stretti nelle loro giacche e cappelli, che
forse avevano conosciuto momenti migliori, ma che da loro indossati,
parlavano di quella vita che essi conducevano attraversando le
campagne del Mississippi, Illinois, Tennessee, Louisiana, fermandosi
a mangiare nei bordelli delle periferie e dormendo molte volte per
la strada, sbronzi di quel pessimo whisky che alimentava i loro “blues”.
Ma la loro musica era vera, narrava cose di tutti i giorni, piccole
storie che entravano nell’ anima creando quello “status”, come
venne definito dalla grande “Ma Raney” durante un concerto, nei
primi del ‘900: “il Blues è uno stato dell’ anima e della
mente, egli nasce dalle nostre emozioni, grandi o piccole che siano,
nasce dalle manifestazioni di gioia o di dolore, nasce dal treno che
illumina nella notte le rotaie (Love in Vain di Robert Johnson),
nasce persino dallo straripamento del Mississippi avvenuto nel 1927.
Tutto ciò che ci circonda: è Blues”. Per un’attimo Keniaji
Dobin, rimase quasi stordito da queste visioni, vide tutto in una
frazione di secondo, come se attraverso qualche misterioso rito
Voodoo, l’uomo che suonava la sua sgangherata chitarra battendo il
piede su di una scatola di latta capovolta, gli avesse trasmesso
attraverso quelle misteriose note, tutto il codice della sua vita,
quella vita che iniziò più di mezzo secolo prima, su di un campo
di cotone e dormendo con i piedi incatenati al ceppo sul terreno
reso umido dalla vicinanza del grande Padre Mississippi. La notte li
sorprese ancora a danzare attorno al fuoco, e l’uomo dalla
chitarra sgangherata era ancora li, suonando strane musiche che
rimescolavano l’ anima di Keniaji, e la gente continuava a
danzare, quasi librandosi nel buio, rispondendo con frasi sempre
più concitate alla rime dell’ uomo in nero, Keniaji osservava le
sue lunghe dita che si muovevano impercettibilmente sulle corde, e
ne ebbe l’ impressione di sentire note non suonate e corde mai
toccate, eppur gli penetravano diritto nel più profondo dell’
anima. Il fuoco si era trasformato in una rossa brace che lanciava
piccoli bagliori tutt’ intorno e pian piano andarono tutti via,
lasciando solo Keniaji che restò a fissare quella sagoma scura
ancora più cupa al lampeggiare di qualche scintilla che si alzava
dalla brace. L’ uomo in nero si sedette, e dal buio comparve, all’
altezza della sua bocca, il punto rosso della sigaretta accesa. Dopo
alcune avide boccate, si volse verso Keniaji dicendo: “ Ragazzo,
vuoi dirmi qualcosa?, parla dunque”. Keniaji Dobin ancora più
stupito che spaventato, non mosse nemmeno un muscolo del suo viso, e
forse approfittando del buio della notte che oramai era calato anche
su ciò che restava del fuoco, spalancò gli occhi come se le parole
gli volessero uscire dalle orbite, ma restò solo un grande silenzio
a colmare la distanza tra lui e l’uomo in nero dal grande cappello
di paglia. Ad un tratto si sedette lentamente su di una vecchia
sedia sgangherata, apostrofando i movimenti con una ultima aspirata
di sigaretta, come se la notte non scivolasse per niente sui suoi
vestiti, e socchiudendo gli occhi come se volesse leggere nell’
anima di Kenijai cominciò a parlare:
- Ero molto più piccolo di te, quando avevo
le mani e i piedi incatenati al ceppo per tutta la notte, mentre
sentivo gemere la mia gente intorno a me pregando un Dio
inesistente, implorandolo di liberarci. Un giorno presi una lunga
via, e li cominciai a correre, a correre, a correre, fin quando
arrivai stremato al tramonto, in una fattoria dove sentii, man mano
che mi avvicinavo, un vecchio, talmente vecchio, di cui non riuscivo
a raccogliere la benchè minima età che suonava uno strumento che
assomigliava ad una chitarra ma aveva una sola corda, e cantava un
lamento che mi fece sedere sulla nuda terra ad ascoltarlo, e lo
ascoltai per tante ore. Alla fine poggiò lo strumento sulle gambe e
chiudendosi gli occhi con le mani, alzò la testa al cielo per
ringraziare il Signore di avergli dato ancora un giorno di duro
lavoro. Avvicinandomi, gli chiesi se avrei potuto, un giorno,
suonare come lui, e come avrei potuto imparare. Voltandosi e
sorridendo, mi disse: “Tu vuoi diventare uomo di Blues?, allora
ascolta: ripercorri questa strada per vent’anni, bevi l’ acqua
fetida che l‘ uomo bianco ti da, mangia con le mani al buio dopo
aver lavorato quindici ore sui campi di cotone, infine prendi la
chitarra e suona: quello sarà il tuo “Blues”. Dobin non si
accorse che, quell’ uomo, raccontando la sua storia, si stava
allontanando nella notte, ed ebbe la sensazione che i suoi piedi non
toccassero il prato, lo sentì volteggiare sull’ aia quasi come un
soffio di vento, eppure ascoltava le sue parole, comunque alla fine
si ritrovò solo nel buio con una forte emozione di speranza dentro
di se, e sentiva dentro di se che quella notte avrebbe cambiato la
sua vita. Si accorse di aver pregato tanto il Signore, e Lui qualche
volta, per dargli ascolto, affacciandosi dal cielo, vide il suo
lavoro se ne rallegrò, guardò le sue mani e si commosse, poi
vedendo il suo salario, chinò la testa e andò via. Infatti
ripensandoci su, KENIAJI, restò molto perplesso da un comportamento
così poco misericordioso, quindi quella notte smise di piangersi
addosso e rimase nel buio a riflettere facendo rimbalzare la sua
anima dentro le parole dell’ uomo in nero. Alle prime luci dell’
alba, prendendo coscienza di se stesso, aprì il cancello della
fattoria dove lavorava, e, attraverso il grande padre Mississippi, s’
incamminò lungo la “Highway 61”, su quella strada dove un
centinaio di anni prima iniziò tutto. Passò per Greenville,
Cleveland, Greenwood, Memphis, Jackson, Louisville nel Kentucky,
St.Louis, Kansas City, fino ad arrivare in Illinois sulle rive del
Lago Michigan a Chicago: e lì si fermò. Dell’ adolescente
KENIAJI DOBIN SUTAKUY, se ne persero le tracce, fino a quando una
sera del 1949, un cartello attaccato dentro un “Barber Shop”
dava notizia di pianista blues che si sarebbe esibito quella sera in
un locale confinante, descrivendo pienamente la sua condizione di
essere. Si trattava proprio di quello schiavo nero che piangeva la
notte pregando il suo Dio, anch’ egli sordo come un ranocchio, e
che cambiò il nome in “ Lester Sonny Johnson”, possedendo
soldi, auto e donne, ora suona il Blues nei locali notturni di
Chicago.
Sono le quattro del mattino quando metto il punto
a questa mia storia fantastica, e una cosa mi pare giusto
aggiungere: “ Non ascoltare le persone con la pessima abitudine di
essere negative, esse derubano le migliori speranze del tuo cuore,
ricorda sempre di preoccuparti di essere positivo, e a tal punto
vorrei chiudere con una strofa tratta dal brano “Se lei fosse
qui”e che fa parte del mio recente lavoro:
Meno male che anche
questa notte, salvo il culo dalla pantera,
non e' bello star con lei, senza il fiato io cosa ci farei.
Ma ora ascolta quel che ti dico, se faccio Blues è perchè ci
credo,
non per gloria e non per fame, però se avessi voluto far la
grana,
avrei fatto il liscio o la disco dance,
ma sicuramente più di tutto…..avrei fatto la puttana.
BUONA NOTTE.
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