Come dentro un blues che ti scalda il cuore

di Giò Vescovi

"Certo ogni tanto potremmo anche suonare "in casa"", accennò Pasquale dentro il suo cappello di lana che gli copriva quasi fino al mento, e in preda al dormiveglia più ostinato. Dall'altra parte del pulmino si sentì un "mmmmah…no…io sa…", tutti rinunciammo a capire cosa diavolo volesse dire Lino, sommerso dalle custodie delle chitarre e dalle aste dei microfoni, mentre io dal mio canto, facevo i conti delle spese, rivivendo come da moviola tutta quella strana avventura che durava da diciotto ore. E già, diciotto ore volate tra un' autostrada, la musica, un paio di bottiglie di vino rosso, per scaldarci l'anima, e renderla pronta ad accogliere le note di "Hey, Hey" di Big Bill Broonzy. Ritornai indietro di diciotto ore, quando nel cortile di Mattia cominciammo a riunirci, per iniziare l'imponente cerimonia del "carico io o carichi tu?". E, tra un defilarsi e l'altro, incazzandomi, facemmo caricare quasi tutto al padre di Mattia, che gentilmente si prestò, avendo intuito largamente e in maniera molto saggia, che il concerto in quel modo lo avremmo fatto l'anno prossimo. Tra l'abitazione di Mattia e Caserta Nord, ci saranno circa tre chilometri, e proprio in quella distanza sbagliammo strada ben cinque volte, rendendoci conto che sarebbe stato meglio sostituire l'autista di turno, difatti il nostro bassista non è un gran che di intraprendente, quando c'e' da scegliere una strada o un' altra, anzi durante i concerti sono costretto e fare la conta per sapere se ci sta o no (una volta ce lo siamo scordati in un' autogrill, ancora oggi crede che lo abbiamo fatto apposta!). L'autostrada, adesso, scorre davanti a noi, ognuno impegnato nei suoi pensieri, Lino scherza con le sue armoniche accennando a qualche riff, che a me piacciono molto. Mattia con l'aria della serie "..sono il bello, e va avite 'a stà…", e noi glielo facciamo credere, l'importante è che suona come un vulcano. Il nostro batterista accenna a qualcosa di come quando andò in montagna per portare la carne al suo cane e si accorse di aver sbagliato pacco, infatti era la salsiccia che gli sarebbe servita per il pranzo, ma il suo altruismo gli permise di vedere Lallo (il cane si chiama così…mah!…) mangiare al posto suo. Poi la coda di macchine a Salerno, l'ingorgo a Battipaglia, l'incubo autostradale di Lagonegro, il buio che comincia a scendere su di noi, l'impresario che ti chiama per sapere dove diavolo siamo andati finire, e io, che con aria serafica, gli sparo la mia cazzata dicendogli.. "siamo a circa trenta chilometri da Cosenza" ...mentre guardo dal finestrino un'insegna che ne indica centoventi. Poi i tarallucci in un'autogrill, la polizia che ci ferma mentre stiamo facendo carburante prendendoci per albanesi che fanno il contrabbando di strumenti musicali, ma poi dopo i chiarimenti di rito scopriamo che il figlio di uno dei poliziotti, fa il piano bar con una di quelle tastiere che appena le guardi ti fanno ottanta ritmi contemporaneamente, dal valzer irlandese ai canti tribali della Papuasia meridionale con infuenze del tardo Impero Mesopotamico.
Finalmente l'autostrada ci riavvolge nel buio, fin quando intravediamo l'insegna di Cosenza. Fa' attenzione, dico a Luciano, che stoicamennte aveva sostituito Pasquale alla guida, dobbiamo proseguire per Cosenza Centro e non entrare a Cosenza Nord, non avevo appena finito di dirlo, che con tanto di luci di posizione e frenata, Luciano mi entra a Cosenza Nord, meritandosi ampiamente gli improperi di tutti. Ore 20.45, con circa due ore di ritardo ci fermammo davanti al Beat & Blues Music, nella zona medioevale di Cosenza, entrammo con disinvoltura e, in verità, fummo accolti con calorosa simpatia accompagnata dal primo giro di birra, "qui promette bene".., pensai fra me e me. Impiegammo trenta minuti per montare e fare i suoni, e già eravamo a tavola con un bel piatto di penne all'arrabbiata e birra a volontà. Luciano cominciò a fare l'inventario delle ragazze che servivano ai tavoli inseguendone una in particolare fin dentro la cucina implorandola di conoscere il numero di telefono… in cambio del suo. Lo richiamai all'ordine (a volte mi stupisco di come i miei compagni mi stiano a sentire). Dopo cena, e prima del concerto, mi dedicai al colloquio con i vari tavoli, il locale era quasi pieno, e tra li a poco avremmo dovuto cominciare. Diedi un'ultima controllata ai cavi, le casse, gli strumenti, alle pile dentro il mio radio microfono. Una volta dimenticai di inserire le pile, e già al primo brano ci siamo dovuti fermare, enorme figura di merda, in fondo questo è il bello del live (non mi riferisco alla figura di merda). Come tutte le cose che hanno inizio, alle 23.00 in punto cominciammo, e subito avvertimmo che la serata sarebbe stata molto calda, infatti dopo pochi minuti le prime file cominciarono a battere i piedi (è un buon segno per tutti quelli che suonano, tenetelo come esempio per misurare l'andamento della serata). Le ultime file cominciarono ad avanzare, mentre le prime erano già in piedi, Gianni, saggiamente, pose al riparo i suoi sax messi in bella mostra davanti a tutti, io cercai disperatamente un riparo per i miei spartiti, fu tutto inutile: un'immane folla si abbattè su di noi, sopra il palco, non appena cominciammo le prime note di "Whole Lotta Shakin' Goin' On", e da quel momento, fino alla fine del concerto, fu un girone infernale. Ballavano di tutto, persino con "The Trill Is Gone", che farebbe piangere chiunque se leggesse il testo, pensavo tra me che i brani "tosti" dovevano ancora venire, allora dissi ai ragazzi di mettere a riparo qualunque cosa che si dovesse rompere, singolarmente vidi Lino che depose le sue armoniche in tasca, una per ogni tonalità (quella in LA la mise nel calzino…mah!). Ma ecco l'APOTEOSI. Venne incontro a noi, sbucando dalla folla d'improvviso, vestiva di rosso, con gli stivaletti a punta, ben formata e col viso che non prometteva niente di buono. Successe in un' attimo: alle note di "She Caught The Katy", comincia una danza mista alla "Lap Dance" e a quei movimenti che richiamano i riti VooDoo, toccando tutti i punti del palco, dall'asta del microfono al povero Pasquale sudatissimo dietro la batteria, poi fu la volta di Lino togliendogli quasi la camicia, alla fine completò l'opera con me, avviluppandosi praticamente alle mie gambe e trascinandomi nella danza in posizioni che non voglio descrivere, per mio pudore. La performance, continuò per tutta la seconda parte del concerto, richiamando sul palco molti ragazzi (e qualche adulto), che a turno volteggiavano interno a lei con un fare dance della serie "sexsual". Chiudemmo il concerto con la nostra versione di "Sweet Home Chicago", dove ci congediamo dal pubblico presentando il gruppo, fu un successo, considerando gli applausi (la cosa più gratificante per me fu, che il titolare nel segnarsi sull'agenda il nostro numero telefonico, scrisse a fianco del nome della band un' OK, che mi ripagò di tutta la stanchezza accumulata). Voltandomi ancora una volta verso il pubblico, notai l'assenza della donna in rosso, praticamente sparita, lasciando come saluto, un boccale da 0.5 semivuoto, e una scritta sul sottobicchiere che diceva: Grazie per la bella serata.
Un freddo cartello autostradale mi indica Caserta Sud, portandomi alla realtà. Avevo rivisto, come in un film, tutta la serata, guardo l'orologio: è quasi l'alba, i nostri blues dormono, insieme alle agonie di tutti i musicisti "on the road", dormono le ragazze che Luciano inseguiva, dorme Paolo, il titolare del locale, dorme il parcheggiatore che gentilmente si prestò per darci una mano a scaricare gli strumenti, dietro mancia, naturalmente, dorme Lino, che avrebbe voluto restare a Cosenza per cuccare, non si sa con chi, dorme Packy, e sicuramente sogna quel maledettissimo attacco di "Proudy Mary" che puntualmente lo prende con un quarto di battuta di anticipo (oramai non lo cazziamo più), sicuramente dorme anche Lallo, il cane di Pasquale, dormirà anche lei: la misteriosa donna in rosso, sbucata dalla mischia e nella mischia dileguatasi, in silenzio, come dopo aver preso un'anima o una sensazione che solo il blues può dare. Forse lei ha colto quell'aria misteriosa della musica del diavolo, quella paura di essere a mezzanotte al Cross Road della 61° HighWay, lì dove Robert Johnson, 76 anni fa avrebbe venduto l'anima al diavolo, in cambio della conoscenza dell'essenza profonda del blues. Ma cosa voleva dire quel suo agitarsi su di me, cantando: "…Shake me, Shake me, Shake me, baby, Shake me all the night…". Scherzava..?
Giò Vescovi

 

Giò Vescovi

 

 

 

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