Un po’ per gioco e un po’ per non morir….
Lettera di Attilio Del Giudice ad Andrea Sparaco 
Uno dei principali artisti mai espressi dalla nostra provincia, Andrea Sparaco ha recentemente risassunto quaranta anni di arte in un catalogo a lui dedicato dalla casa editrice ELECTA. Parte di questo materiale è disponibile on line sul sito www.andreasparaco.com, curato da "Caserta Musica & Arte". In occasione di tale antologia, e in vista di una importante Mostra Antologica che terrà nel Museo di Capua a Settembre, pubblichiamo uno scritto inedito dello scrittore Attilio Del Giudice che ripercorre la storia del gruppo di pittori riunito col nome di " Gruppo Studi P. 66 – La Comune 2".  A me è piaciuto un mondo, e vi invito a leggerlo essendo certo che non mancherà di coinvolgervi. (e.d.d.)

Una lettera di Attilio del Giudice

Se dovessi analizzare stilisticamente l’opera di Andrea Sparaco, sarebbe come entrare, nottetempo, di nascosto, nella cittadella fortificata della Critica d’Arte, senza nemmeno un cavallo a dondolo. Praticamente, col rischio di essere catturato e fucilato sul posto. Insomma non ho l’attrezzatura per farlo decentemente, né Andrea, che è un artista di rilevanza nazionale, ne ha bisogno: altri l’hanno fatto con la dovuta specificità culturale e professionalità. D’altronde, io, per indole e operatività, mi pongo sul versante dei facitori (lo dico in senso tecnico e classificatorio) e non degli analisti e dei critici d’arte. Tuttavia, essendo stato testimone per un certo numero di anni di una vicenda artistica, per molti versi straordinaria, quella appunto di Andrea, due cose che penso le vorrei dire. A modo mio, si capisce.

La prima è questa: pochi artisti possono vantare una produzione così cospicua come quella di Sparaco. Centinaia e centinaia di disegni, sculture, dipinti, serigrafie, incisioni, collages, assemblages, grafiche per libri, per riviste, installazioni di opere pubbliche, e con aperture e flessibilità anche per i linguaggi tecnologici. Un’attività enorme, senza soste, condotta, infaticabilmente, ogni giorno, e non solo per urgenze espressive, per necessità interiori, ma anche, e in maniera rilevante, per una sua disponibilità assoluta a contribuire, col suo lavoro, alle cosiddette "giuste cause": di carattere politico, sociale, sindacale, ecologico, di solidarietà umana e così via. Lui non avrebbe mai detto: "Mo ci ho da fa’, ci ho da consegna’ n’opera de svariati milioni. Magari se trovo n’attimino, te faccio er disegnuccio" (ho usato la mimesi romanesca, che meglio si confà a questo tipo di psicologia). No, Andrea non avrebbe mai pensato in tal guisa. Primi maggio, feste dell’Unità, congressi sindacali, fame nel mondo, Biafra, libertà per la Grecia, Bolivia, Vietnam, Black Power, Maggio Francese, Valle Giulia, Divorzio e tanti altri eventi, lotte, manifestazioni, idealità, giuste cause, appunto, l’hanno visto darsi, anima e corpo, per contribuire con manufatti artistici, manufatti che potessero servire, dare un apporto di partecipazione, rendere più leggibili i logo e più suggestivi, sussidiare i manifesti, esaltare graficamente parole d’ordine, rinforzare le idee con le immagini. Riuscendo, peraltro, a convogliare e a coinvolgere altri artisti, che frequentavano il suo studio, allievi e artigiani, in svariati prodotti e realizzazioni. Da questi incontri, nel suo studio, nacquero amicizie, amori, note di curriculum professionale e, in alcuni casi, si delinearono le coordinate dei nuovi talenti e, per alcuni, queste esperienze furono l’incipit della propria storia o storiella artistica.

Quanto ho detto riguarda un fatto incontrovertibile. Non si presta all’ambiguità delle formulazioni sulle cifre stilistiche e sui livelli di artisticità. E’, secondo me, un fatto umano, con una forte valenza morale. Se si deve parlare di Andrea (certo, nessuno ci obbliga, ma se se ne vuole parlare), questa è la prima cosa che viene in mente.

La seconda è più problematica. In tutta l’opera di Andrea, e senza che si registrino defaiances, si ha l’impressione e, talvolta, la certezza, che permanga, costantemente, un’idea antica dell’armonia, dell’equilibrio formale e una preziosità nell’elaborazione della materia. Alla base c’è un’ispirazione che include una collaudata sapienza artigianale e una conseguente fatica di esecuzione. Voglio dire che Andrea non avrebbe mai affidato la sua poetica a una sciabolata di nero su bianco o, che devo dire? allo strappo di un manifesto murale o alla casualità statistica dello sgocciolamento dei colori (è ovvio che non mi riferisco a un Franz Kline, a un Mimmo Rotella o a un Pollock; semmai ai tanti imitatori ed epigoni). Gli sarebbe sembrato un cedimento al gusto della trovata, gli sarebbe parsa, sostanzialmente, una mistificazione, una falsità. "Mi troverete sempre – ha scritto lui stesso – a pochi centimetri dall’avanguardia". A pochi centimetri, appunto. Cioè a dire che la sua opera non ha niente a che vedere con i vecchi accademismi, ma nemmeno si vuole confondere con le modalità del finto estremismo e col rampantismo che, generalmente, funziona con la sensibilità dei mercanti, ma non con quella della propria coscienza. Questa posizione di Andrea può essere discutibile, lo ammetto. E, forse, anche lui l’ammette. Però è un dato di fatto ed ha anch’esso, in ultima analisi, una sua dimensione etica. In poche parole, Andrea è l’artista che crede ancora in una possibile intesa col fruitore. Un’intesa emozionale e intellettuale, non semplicemente sensoriale. Crede nell’Uomo in quanto tale e non se la sente di umiliarlo, attraverso la sua opera, con la frustrazione visiva e il cazzotto nello stomaco, a tutti i costi.

Una decina di giorni fa, mi ha chiamato al telefono (ci sentiamo due, tre volte l’anno.)

"Devo fare una mostra antologica nel Museo di Capua. Vorrei che tu scrivessi del Gruppo. Io cerco di difenderne la memoria, ma con difficoltà. Molti documenti si sono persi… e poi sono solo…"

"Ma c’è un po’ di tempo? Perché sto lavorando alla costruzione di un sito internet…"

"Sì, almeno una quindicina di giorni."

Insomma ho detto sì, ho accettato con la solita incoscienza, una prerogativa che, evidentemente, non mi abbandona. Ho pensato che avrei finito quel mio lavoro entro una settimana e poi avrei avuto il tempo per concentrarmi su questa cosa che Andrea mi chiedeva. Quando, però, mi sono messo a pensare a cosa avrei potuto scrivere, ho capito subito che l’impresa era per niente facile. Non mancano gli argomenti, né mi sono scordato i fatti, non completamente, almeno. Ma gli afflussi dell’emozione, sussurri e grida della memoria… sono stati invadenti. E poi i rischi: il rischio per esempio, delle rimembranze senili, sempre deformate, sublimate, edulcorate, enfatizzate. Così sono scattati i meccanismi di difesa: prenderla un po’ alla larga, argomentando.

L’argomento principe, si sa, è l’idea della Storia. Concetto Marchesi, il grande latinista, diceva che la Storia insegna, ma non ha scolari. Nell’amarezza della locuzione, emerge chiaro il concetto che non si può costruire la vita, senza avere memoria del passato. La vita? La vita sociale e politica, si capisce. La Storia, quindi, se ha questa funzione è rivolta ai giovani, a quelli che devono costruire il futuro sociale e politico. Non certo a quelli che di futuro ne hanno poco o niente. I fatti della storia devono, però, essere significativi. Devono avere potenzialità di incidenza nella vita contemporanea. Per esempio: sapere quante volte Hitler andava alla toilette, non serve a niente, ma sapere dell’Olocausto, altroché se serve alla costruzione del futuro. Ora, io credo che il meccanismo, di cui ho fatto un esempio paradossale, valga sia per le grandi comunità e per i grandi eventi, sia per gli accadimenti piccoli e per le piccole comunità. Voglio dire: gli accadimenti di uno sparuto gruppo di pittori di oltre trent’anni fa, in una piccola città di provincia, sono stati così significativi e incidenti da poter essere oggetto di un’analisi storiografica, puntuale, rigorosa, documentata, e tale da essere recepita e risultare utile ai giovani della nostra città, nella fattispecie a giovani artisti e critici d’arte?

Onestamente, per quanto la certezza che serva a niente non sia proprio matematica, personalmente, penso di no. Ne vogliamo parlare lo stesso? Parliamone pure! Ma alla buona, senza pretese storiografiche, così, privilegiando il versante aneddotico.

Dunque il "gruppo", di cui Andrea diceva al telefono, era un gruppo di pittori che si chiamava Gruppo Studi P. 66 – La Comune 2. Era nato dalle ceneri di un gruppo più vasto, che Luigi Castellano (Luca) aveva fondato a Napoli e che mirava a coinvolgere tutti, tutti i pittori della Campania, sperimentati e giovanissimi alle prime armi. Luca aveva anche scritto il "manifesto" che conteneva le principali direttrici ideologiche. Mi ricordo qualche frase: "Per un’operazione di massa che ponga anche gli artisti al centro delle iniziative e delle lotte…" Era la proposta. Un po’ sballata, in verità, ma adeguata a cementare differenziate personalità e a dare a tutti un senso di appartenenza. Luca lo aveva certamente calcolato.

Luca è stato (ed è) una delle più acuminate intelligenze del mondo artistico napoletano. All’epoca teneva corsi di semiologia presso la facoltà di Architettura, poi presso la cattedra di Filosofia Teoretica nel corso di Filosofia del Linguaggio. Ci parlava, perciò, di Semiotica, di problematiche epistemologiche, di Roland Barthes e dei gruppi che aveva fondato (per esempio, il mitico Gruppo 58. Luca, del Pezzo, Biasi, Persico, Fergola, di Bello). Ci parlava del Living Theatre, di Emilio Villa, delle riviste d’avanguardia che aveva diretto: Linea Sud, Movimento Sud e poi No, alla quale fummo chiamati a partecipare. Ci parlava dei maestri della poesia visiva, di Stelio Maria Martini, di grandi galleristi che dovevamo stuprare. Del Gruppo 63 e di Sanguineti. Dell’astro nascente Achille Bonito Oliva, che, chissà perché, dovevamo considerare un avversario ideologico e via di seguito. Mescolava, sapientemente, notizie e informazioni della cultura alta a un umore partenopeo di tipo popolaresco, che implicava argomenti sui quartieri spagnoli, il contrabbando delle sigarette, la pizza coi cicirinielli, femmine di vita e compagnia bella. Alcune sue battute comiche o sarcastiche, specialmente nei riguardi del potere, del potere politico e culturale (anche quello del PCI, verso il quale nutriva, comunque, una marcata abnegazione), sono state memorabili e fanno ancora parte del lessico dei pittori napoletani.

Naturalmente anche noi ne subivamo la fascinazione. Lo abbiamo amato in maniera quasi edipica, con il conseguente patricidio… da Totem e Tabù, appunto.

La Comune 2. Vi facevamo parte Andrea ed io, con Raffaele Remino e due giovanissimi di cui avevamo intravisto il talento: Livio Marino e Paolo Ventriglia. Perché due? Il nome era stato coniato da Luca, che, al solito, pensava in grande: forse la uno doveva essere la Comune di Parigi… chissà!

Che faceva ‘sto gruppo? Quali prodotti? Usavamo svariate tecniche, ma, prevalentemente, costruivamo immagini con disegni o fotomontaggi, che sottoponevamo a un processo fotomeccanico, ricavandone ratex da colorare o eliografie in bianco e nero. Ognuno firmava i propri lavori; talvolta li assemblavamo in quaderni e, in tal modo, con una tecnica semplice e poco costosa, potevamo avere dei multipli agevoli, per così dire, alla comunicazione visiva. I risultati formali richiamavano il linguaggio e le tecniche della Pop Art americana, con implicazioni più marcatamente sociologiche e politiche. In pratica, avevamo un materiale da portare nelle centrali della cultura dell’epoca e partecipare a una molteplicità di manifestazioni di avanguardia, senza, particolari difficoltà economiche. Andammo a Roma alla libreria Rinascita, alla Feltrinelli di via del Babuino, partecipammo a Barcellona al premio J. Mirò, al Festival della Cote d’Azur a Cannes, a una mostra a Cuba per un anniversario della Rivoluzione, a varie manifestazioni in tutta Italia e, naturalmente, della nostra provincia. Non passammo inosservati, anzi…

Ci scrisse Umberto Eco: "Mi raccomando, tenetemi al corrente del vostro lavoro…". Ci scrisse ripetutamente e affettuosamente Luigi Nono. Uscirono articoli sui principali quotidiani, non più quindi le noticine nelle pagine di cronaca locale. Del Guercio scrisse una lunga recensione su questi quaderni della Comune. Avevamo l’appoggio e l’apprezzamento di artisti famosi, Enrico Baj, per esempio; Bertini, Calabria. Mazzacurati disse che non aveva visto niente di più intelligente negli ultimi decenni in Campania. Andrea vide che un suo lavoro era stato utilizzato come logo in una trasmissione televisiva di carattere culturale. Io vidi apparire una mia eliografia in una sequenza del film Teorema di Pasolini. Insomma, ingenuamente, ci sembrò che non fossimo più vittime di una atavica emarginazione e credemmo anche che, quanto ci accadeva, non era mai successo prima agli artisti casertani. Crescenzo del Vecchio, che lavorava a Napoli, dove, giovanissimo, già insegnava all’Accademia, col quale c’erano scambi e reciproci contributi, portava avanti un movimento che poi si chiamò Humour Power (al quale partecipai col Postal Art). Crescenzo si impose e andò alla Biennale di Venezia. Alle nostre operazioni si affiancava, talvolta, Vittorio Moriello. Era ancora un ragazzo, dolce, buono, ma già aveva mostrato la sua forte tempra di scultore. Più spesso, Antonio de Core. L’indimenticabile Antonio. Un maestro indiscusso a Caserta. La sua presenza era per noi rassicurante. "Se c’è De Core – si diceva in alcuni ambienti – vuol dire che è una cosa seria… Gabriele Marino, anche lui nell’orbita napoletana, manteneva i contatti tra il gruppo napoletano di Proposta 66 e la nostra Comune. Gli spazi di lavoro erano quelli del Triangolo, uno studio che Andrea ed io avevamo messo su con i proventi ricavati dalla vendita di una cartella che Ennio Calabria ci aveva regalato. In questo Triangolo, si svolgevano le attività del gruppo, si conduceva una scuola per la preparazione alle abilitazione per l’insegnamento delle discipline artistiche e si portava avanti l’attività sindacale (le lotte per l’attuazione della famosa legge del 2%, puntualmente disattesa in Campania). Qui, nel Triangolo, cominciava a prendere coscienza di sé Giovanni Tariello, un altro ragazzo che farà parlare, ma anche Carmine Posillipo, Ribattezzato ed altri, che, con me e Ventriglia, in seguito, formeranno un altro gruppo: il Junk Culture (Ma quella è un’altra storia). Di tanto in tanto, si faceva vedere un’artista romana, bella, colta, intelligentissima: Lucia Romualdi. Anche lei agli esordi nell’avanguardia. Diventerà una protagonista dell’arte visiva contemporanea.

Una volta, con una lettera di Luca, andammo, Andrea, Raffaele ed io, da Renato Guttuso, nello studio di Piazzetta del Grillo. All’epoca Guttuso era vitalissimo e centrale nel dibattito culturale. Noi eravamo molto tesi. Sapevamo di dover incontrare un grande maestro, le cui opere si trovavano nei principali musei e pinacoteche del mondo. Insomma le stimmate di una timidezza provinciale erano fin troppo visibili. A noi si era affiancato un ragazzo che faceva il militare a Caserta. Era un designer. Diceva di aver inventato la busta a piramide del latte (e forse era vero). Era assai simpatico e, certo, precursore di una disinvoltura, che sarà, poi, frequentissima nelle generazioni successive. Non provava soggezione. Siccome le nostre cose erano in bianco e nero, Guttuso ci consigliò di esprimerci anche col colore, usando la tecnica della serigrafia, altrettanto agevole per ottenere multipli e "far conoscere – disse - in più parti, i risultati del vostro lavoro". Per rinforzare il discorso, ci mostrò una serigrafia di Enrico Baj, che aveva ricevuto proprio in quel giorno. A questo punto, il soldato si produsse, alzandosi anche in piedi, in una vera e propria lezione sulla tecnica della serigrafia. Renato Guttuso, che aveva spiccato il senso dell’umorismo, non riusciva a nascondere il riso. Ma il Maestro era anche sottile e ironico, infatti, nel frattempo, era arrivato il senatore Palermo, un altro guru del PCI, e lui, Guttuso, ci presentò in tal modo: "Questi sono grandi artisti del Mezzogiorno…". Quando scendemmo in istrada, camminavamo rigidi, senza dire una parola, quasi che Guttuso ci potesse spiare da una finestra del palazzo e sorprenderci in un atteggiamento volgare. Appena voltato l’angolo, però, ci abbandonammo sia alla gioia per l’accoglienza affettuosa che avevamo ricevuto, sia all’incazzatura col soldato: "Disgraziato! Ma tu sei proprio un pazzo!" E roba così.

In quel periodo ci scrisse Occhetto, allora capo della F.G.C.I.. Un nostro quaderno eliografico piacque a Natta. Ci scrisse finanche Enrico Berlinguer. Un lungo telegramma. Fu una grande gioia.

E la città? La città ci era ostile. O meglio, noi credevamo che fosse ostile (forse, inconsciamente, lo speravamo, per sentirci più rivoluzionari), in realtà, la città era indifferente. Il governo era in mano a mezze tacche e nei gangli istituzionali s’erano infiltrati i ladri di polli (poi del pollaio e dell’intera fattoria). Impossibile un dialogo. Impossibile chiedere appoggi. Un qualche appoggio lo avevamo dagli esponenti del P.C.I.. Gente seria, preparata, severa. Ne temevamo molto il giudizio. Il giudizio morale e politico, soprattutto. Poi vennero i leader della contestazione e, infine, i capi dei Gruppuscoli. Ne erano germinati anche a Caserta. Filocinesi, prevalentemente. Si interessavano alle nostre cose, ma controllavano che anche noi ci interessassimo alle loro attività e ai loro giornali. Questi giovani erano più pallidi, più nevrotici. Nei loro ambienti era bandita ogni forma di umorismo. Parlavano sempre come se il rovesciamento della praxis… fosse una questione di ore. "Vabbè, finisco di prendere il caffè e vengo o fare la Rivoluzione…". Mi ricordo che i filocinesi esprimevano la loro filocineseria in due gruppi differenziati e distinti. Uno, chiamava Mao Tse Tung, il Presidente; l’altro: il Compagno Mao. Se ti imbrogliavi, come successe a me, venivi tacciato di piccolo borghese. In quel tempo era un vero e proprio marchio di infamia.

Ma, piccolo borghesi lo eravamo per davvero. O, più precisamente: volevamo conciliare un certo decoro, appunto piccolo borghese, con la boheme e con l’artisticità rivoluzionaria. Senza averne lucidità di nozione, volevamo conciliare l’inconciliabile. Mi ricordo d’una nottata trascorsa con Remino a casa sua a lavorare con apparecchi hi-fi (lui aveva una buona attrezzatura). Mimmo Palladino ci aveva chiesto una colonna sonora, che facesse da supporto a certe sue installazioni totemiche. Ci impegnammo in un’acrobatica correlazione, mescolando i canti gregoriani con la musica dodecafonica di Schoenberg. Al mattino, verso le sette, finalmente finimmo. Con gli occhi arrossati dalla stanchezza, ma contenti della "commistione" (a Palladino piacque molto). "E ora – disse Remino – andiamo verso l’altro polo della schizofrenia".

L’altro polo era il nostro lavoro di ogni giorno. Lui, con giacca e cravatta, a rappresentare saponi e profumi della Palmolive, nei negozi; io, meno elegante, a rappresentare teorie e metodi della psicologia scientifica in disastrate e puzzolenti scuole napoletane. Piccoli borghesi, sissignori! Non era una vita facile, però. Ma torniamo alla Comune: "Strutture Primarie e Secondarie per un Teatro Zero".

In quegli anni, a Napoli, esplodevano le avanguardie. In quest’ambito, il Teatro Esse era uno spazio prestigioso. Si stavano facendo le prove de "I negri". Genet aveva dato solo a questo teatro, in Italia, il permesso di rappresentazione. Primo attore: Mastelloni, splendido. Gennaro Vitiello alla regia.

Conoscevo Gennaro e gli parlai. Gli esposi il progetto. Gli piacque e la cosa si fece. Andrea aveva mostrato qualche perplessità. Io avevo dalla mia parte gli altri del gruppo. Andrea, dopo un po’, si convinse e subito si mise al lavoro, alacremente, come sempre. Ricoprimmo tutte le pareti del teatro con pannelli neri e installammo delle strutture bianche come la neve. Non più, quindi, l’uomo-attore a mediare il messaggio, ma queste strutture-sculture che, in qualche modo, alludevano a categorie sociali e psicologiche. Per esempio: al sentimento, all’alienazione, alla tecnologia, alla chiesa, alla sessualità, eccetera. C’era, poi, come un sovraccarico di espressività, perché queste strutture tra loro parlavano, emettevano suoni. Un linguaggio piuttosto criptico, ma con una qualche portata metaforica. Tuttavia, nonostante la parata… dei tropi, l’ammiccamento alla poetica dell’Oggetto era palese. Non poteva piacere a Luca che, infatti, non ci degnò di una visita; né vennero gli artisti napoletani di Proposta 66, che, con qualche sporadica manifestazione, sopravviveva. Vennero, invece, gli artisti e i critici legati a Lucio Amelio e alla Modern Art Agency. Criticarono, ma, nel complesso, si mostrarono interessati. L’idea, secondo me, era niente male. Rauschenberg, due mesi dopo, in un teatro newyorkese, installerà qualcosa di molto simile.

Eppure questa mostra, che in un primo momento sembrava averci aperto nuovi spiragli e nuovi spazi di ricerca, segnò il principio della fine. Le ragioni istitutive del gruppo presero ad appannarsi e, in aggiunta, subentrarono variabili di più basso profilo: l’insofferenza, direi fisiologica, per l’artista (in generale) alla vita di gruppo; e, poi, qualche bega, qualche pettegolezzo, che, in una città come Caserta, non potevano non trovare terreno fertile. Insomma, dopo pochi mesi il gruppo si sciolse.

La fine del Gruppo Studi P.66 – La Comune 2 segnò, per noi, anche la fine dell’ultima stagione della giovinezza. Una stagione dolce e amara, rabbiosa e ingenua.

Caro Andrea, da quel tempo ad oggi, sono trascorsi trent’anni. Quante cose, dopo, abbiamo fatto, o avremmo dovuto fare, quanti cambiamenti nella nostra stessa coscienza, nelle acquisizioni, quante trasformazioni nel Paese, nel mondo.

Proprio in questi giorni, l’anno scorso, mi trovavo sulle rive del Mekong. Ti lascio immaginare le emozioni e l’infittirsi delle suggestioni per uno della nostra generazione. Noi, la guerra del Vietnam, l’avevamo seguita nei valori, ma soprattutto, nella rappresentazione quotidiana della televisione e, poi, nei film di Coppola e Cimino. Ne conserviamo ancora le immagini nelle icone della memoria. Vive, indelebili.

Ora, laggiù, l’Occidente, sconfitto e cacciato dalla porta, è entrato dalla finestra con la corruzione e con lo scarto di vecchi modelli del capitalismo brutale. Di questi modelli si sono appropriati i cinesi della diaspora che, infatti, tengono in mano tutta l’economia del Sud Est Asiatico, producendo immani ricchezze per pochi e immani povertà per molti, per troppi. E i santi eroi? I santi eroi sono morti. Alcuni, deturpati dal naplam e dalla vecchiaia sono ai margini e chiedono l’elemosina; altri si arrangiano col commercio delle macchine usate e delle ragazze delle montagne, che valgono qualcosa perché non hanno l’aids e possono essere vendute in Thailandia nei bordelli di Bangkok e di Pattaya.

Non voglio parlare della Globalizzazione, né di Internet, né dei titoli Nasdaq. Per carità, per carità! Ma devi convenire che le trasformazioni sono state profonde, e, fino a un decennio fa, impensabili.

Allora mi sono chiesto: i trenta anni che separano gli accadimenti del nostro piccolo gruppo, dalla vita attuale di un giovane pittore casertano, l’eventuale utente di una possibile storia, sono trent’anni o sono trent’anni luce? Sarebbe possibile, oggettivamente, a un giovane pittore di buona volontà trarre dalla conoscenza di quei piccoli accadimenti, non dico un insegnamento (non me lo sogno nemmeno), ma una qualche cognizione utilizzabile per la sua vita intellettuale? Non lo so. Resto nel dubbio. In ogni caso, caro Andrea, come vedi, ne abbiamo parlato.

Un po’ per gioco e un po’ per non morir…. Affettuosamente

Attilio

Andrea Sparaco
(foto emilio di donato /
archivio "Caserta Musica & Arte")

 

"Figure sedute" - 1990

Sculture in legno

 

"Monumento all'inutilità" - 1984

Frammenti di pino rosso

cm 20x30x40

 

"Personaggio con cravatta" - 1986

Tempera, cm 20x20

 

China su foglio - 2001
 21x29 cm

 

"Interno stravolto 1" - 1981

Tecnica mista

 

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